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Graziano Vietnam 1
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14/03/2012

Notizie in Famiglia - 14 marzo 2012

 


Sommario

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La parola del Padre generale

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HO UNA BUONA NOTIZIA!

Ho da darvi una buona notizia: la Regola di Vita, votata al Capitolo di maggio 2011, è stata approvata dalla Santa Sede. Ciascun religioso, ciascuna comunità ringrazi il Signore per il dono  di questa nuova versione della Regola di Vita. Da subito, illuminerà il cammino della consacrazione al Signore e della missione nella Chiesa, per la maggior gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e per meglio servire gli uomini, nostri fratelli.

Ciò che abbiamo vissuto, noi consiglieri residenti a Roma, dopo il  Capitolo di Betlemme del 2011, mi ha ricordato le vicissitudini di Padre Estrate e di Padre Bordachar quando vennero a Roma nel 1875 con le Costituzioni, così come era stato loro richiesto da Suor Maria di Gesù Crocifisso. Mi ha anche ricordato i viaggi che Padre Etchecopar compì a due riprese, pure a Roma, per incontrare Padre Bianchi ed apportare alle costituzioni le correzioni necessarie perché l’Istituto venisse definitivamente riconosciuto nel 1877. Abbiamo in archivio il messaggio che egli indirizzò da Sarrance a Padre Pagadoy, suo consigliere: “Ho ricevuto or ora, nel giorno della festa dell’esaltazione della Santa Croce, il Breve che approva la nostra amata Congregazione… Che coincidenza! Tutti celebrino una Messa di ringraziamento! Tutti i confratelli, compresi coloro che non sono preti, facciano una comunione e recitino quattro Rosari!”
Per prima cosa, mi sono recato nella chiesa della Minerva – dove Padre Etchecopar ed i Betharramiti solevano celebrare quando venivano a Roma – allo scopo di rendere grazie per il lavoro svolto dalla commissione di revisione durante questi anni, per il contributo prestato dai nostri confratelli ed infine per il voto espresso al XXVI Capitolo Generale e per la revisione degli esperti della CIVCSVA.
L’approvazione è stata lunga e laboriosa. Il 1° luglio 2011 abbiamo presentato la regola alla CIVCSVA. Il 17 settembre ci è giunta la risposta, nella quale si formulavano 23 osservazioni, certune di carattere generale ed altre di natura più particolare. Talune erano importanti, altre meno. Dato che uno dei membri della Commissione ci  aveva detto che avevamo fatto un buon lavoro, la risposta ci ha un po’ delusi. Come a suo tempo Padre Etchécopar, abbiamo avuto tre incontri, che riunivano l’intera nostra équipe, con un Capogabinetto, un Sottosegretario ed il Segretario della Congregazione, Mons. Tobin C.Ss.R. Siamo sempre stati ben accolti, ascoltati, ringraziati per il lavoro portato a termine ed invitati a correggere alcune cose. L’approvazione ci è stata comunicata in data 22 febbraio 2012.
Il grande problema era l’identità da attribuire ai Vicari regionali. Non siamo riusciti ad ottenere che, come Vicari, questi potessero essere al tempo stesso consiglieri e superiori maggiori. I Vicari regionali continuano a chiamarsi tali e la loro autorità, non essendo ordinaria, si configura come quella di un delegato così come  precisato agli articoli 246 e 251 della Regola. Questo potrebbe far pensare che siamo ritornati ai Superiori delle delegazioni; nella realtà, in virtù della denominazione stessa attribuita alla figura di Vicario regionale – i cui poteri sono definiti agli articoli 240, 249, 250 e 261, 273 – e sulla base dell’esperienza maturata in questi ultimi tre anni, al Vicario regionale vengono conferiti maggiori poteri di quelli del Superiore di Vicariato, senza che si venga a creare un quarto livello di Superiori.
Alla regola sono state apportate ulteriori modifiche. Soltanto un consiglio sarà qualificato a prendere decisioni: il Consiglio Generale. Il Consiglio di Congregazione, così come espresso nell’articolo 217, avrà soltanto facoltà di esaminare, controllare, valutare e precisare i mezzi. Siamo stati anche richiesti di precisare le preghiere per i religiosi defunti, la durata del postulandato e di mantenere separate le funzioni dell’Economo da quelle del Segretario Generale. Ci è stato inoltre chiesto che i Vescovi emeriti, che rientrano nella Congregazione, non abbiano voce né attiva né passiva e lo stesso vale per i religiosi di voti temporanei al Capitolo Regionale. I Consigli regionali dovranno riunirsi almeno una volta ogni tre mesi; i deputati ad un Capitolo Regionale, nominati dal Superiore regionale, non potranno essere più di tre. Siamo stati anche sollecitati a riformulare i punti 62, 200, 203, 241, 206, 207 in  forma più consona al diritto canonico.
Il Concilio Vaticano II precisa: poiché la regola ultima della vita religiosa è seguire il Cristo così come proposto dal Vangelo, tutti gli istituti religiosi devono adottarla come regola suprema (PC 2,a). È sulla base di questo primo criterio, e su quattro altri, che si è compiuto il rinnovamento della nostra famiglia religiosa. Seguendo San Michele, vogliamo vivere questa stessa vita di Gesù ma soprattutto vogliamo riprodurre e manifestare lo slancio del Cuore di Gesù, il Verbo Incarnato, quando dice a suo Padre: “Eccomi!” e si consacra a tutti i suoi disegni per la redenzione degli uomini (RdV 2).
L’attuale Regola differisce molto da quella del 1901, che aveva un carattere prettamente giuridico. L’ “Ecce venio” vi figurava solo nella parte intitolata “Devozioni della Congregazione”. Vi era stato inserito per volontà di Padre Etchecopar che tuttavia, quando la Regola andò in vigore, era già defunto. È possibile che si dia poca importanza alla Regola perché per noi nel Vangelo c’è già tutto. Ma un simile modo di pensare rende inutile predicare in chiesa ogni domenica, così come continuare a fare esercizi spirituali. Inoltre vanifica tante altre cose. La Regola di Vita esprime la ricchezza del carisma, la sua spiritualità e la sua missione, precisa le esigenze del nostro stile di vita, presiede ai rapporti reciproci ed indica i criteri secondo i quali comporre i nostri conflitti. Il più delle volte, coloro che la vivono meno sono gli stessi che la invocano per vivere tranquilli. Possa la Regola essere utile per la preghiera personale quanto per la preghiera in comunità, tanto per le riunioni in comunità quanto per il discernimento della  missione.
Il nostro Istituto, su richiesta del XXVI Capitolo Generale e con l’approvazione di Roma, si chiama da ora in poi: Congregazione del Sacro Cuore di Gesù di Betharram.
Il cammino è tracciato; non resta che seguirlo fedelmente e gioiosamente perché l’amore di Gesù annientato ed ubbidiente venga manifestato, annunciato, creduto ed amato da noi e dagli uomini e dalle donne che ci sono vicini, per la più grande gloria della Santissima Trinità.

Gaspar Fernandez, SCJ

 

 



 

smichel.jpgSant Michele Garicoïts scrive... 

Occorre studiare le Regole ed osservarle perché ci sono date da Dio stesso

È necessario studiare le nostre regole, dal momento che sono l’espressione dello stile di vita che abbiamo abbracciato e che dobbiamo contribuire a formare e abbellire ogni giorno, come la pianta dell’edificio che siamo chiamati a costruire e a perfezionare. Su questo progetto dobbiamo modellare tutti i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri sentimenti, le nostre azioni, in breve, tutta la nostra condotta. Studiando le nostre regole e mettendole in pratica con la grazia di Dio, saremo in grado di acquisire o ripristinare in noi un quadro veritiero del nostro stile di vita.
M 326

 


 

 

Vita di Comunità

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TORNARE ALLE RADICI PER VIVERE L'ESSENZIALE

La comunità thailandese di Ban Garicoïts ha vissuto, qualche mese fa, un ritiro spirituale a stretto contatto con la natura: Accolti dalla famiglia di Fr. Saat, i giovani betharramiti hanno trascorso 7 giorni sulle montagne, 7 giorni dedicati all’essenziale: un vita semplice all’ascolto del Signore...

A BA-PAN-POI, piccolo villaggio di 12 case (in gran parte parenti di Fr Saat) vicino a Doi Inthanon, il punto più alto della Tailandia, i 40 abitanti hanno fornito il cibo, le strutture sanitarie nonché il loro sostegno con la preghiera. P. Jirapat desiderava molto che questo ritiro riportasse i fratelli alle radici: alcune riflessioni del mattino erano offerte da due anziani del villaggio che hanno parlato del loro cammino di fede, e di come avevano udito per la prima volta l’annuncio di Gesù.
P. Jiraphat ha mostrato ai fratelli come costruirsi il loro “eremo” usando la paglia raccolta nei campi di riso, cosicché ogni fratello avesse la sua “casa”.
Molto tempo è stato dedicato al silenzio in questo posto incantevole e una gran parte della giornata era dedicata semplicemente alla preghiera silenziosa.
A metà della settimana P. Austin ha fatto visita ai fratelli con P. Tidkham ed ha organizzato una condivisione sullo stile di preghiera di Sant’Ignazio, che era una parte importante nella pratica di san Michele. I fratelli hanno gentilmente lasciato a P. Austin la capanna più comoda!
Verso la fine della settimana c’è stato un pellegrinaggio “in cammino con Gesù” della durata di tutto il giorno verso la cima di Doi Inthanon (1850 m.) guidato da alcuni membri del villaggio. Lungo la settimana,  tutti gli abitanti del villaggio hanno partecipato alla messa e alle preghiere comunitarie nella semplice cappella di legno, ed hanno avuto parte attiva nell’animare una serata musicale l’ultimo giorno.  Anche una famiglia di musulmani, arrivata recentemente da Bangkok, ha partecipato alla celebrazione conclusiva.
I fratelli hanno apprezzato la semplicità dell’esperienza … alloggio semplice … cibo semplice … niente elettricità … niente corrente … niente radio o TV … un’immensa ‘chiesa’ a cielo aperto consistente in un incantevole panorama di montagna … L’ospitalità degli abitanti del villaggio … ecc … Ma, al di sopra di tutto, lo spazio per ascoltare la parola del Signore senza distrazioni.
Questo stile semplice potrebbe essere un modello per ritiri anche altrove nella famiglia di Bétharram?
 
Austin Hughes, scj

 
***
 
Pa Bong Piang era il luogo previsto per il nostro ritiro annuale. Questo villaggio, ai piedi del Monte Inthanon e circondato da montagne e alberi, si trova in una delle province di Chiang Mai, Mae Jam. È formato da 7-8 case e la maggior parte degli abitanti sono cattolici. Pa Bong Piang è veramente un luogo con un panorama splendido, con persone serene; vi si respira la presenza di Dio.
Anche il clima era quanto mai adatto alle nostre attività quotidiane. Faceva freddo il mattino e la sera. È stato veramente un piacere viverci. Eravamo un po’ preoccupati per il cibo: ma anche per questo non c’è stato nessun problema e ci siamo adattati con facilità alla situazione.
Il ritiro è durato dal 27 novembre al 3 dicembre 2011. P. Jiraphat è stato la nostra guida ed ha saputo farci sentire a nostro agio con questo nuovo modo di fare il ritiro spirituale.
Avevamo una conferenza la mattina e una il pomeriggio. La maggior parte del tempo era dedicata alla riflessione personale nel silenzio della natura. Tema conduttore: “Alla presenza di Dio nella natura”. Inoltre, alcuni abitanti del villaggio sono stati invitati a parlarci della loro esperienza con i primi missionari betharramiti.
Il tempo trascorso nella riflessione personale e alla presenza di Dio nella natura, mi ha aiutato molto a riflettere sulla mia vocazione. Mi ha anche stimolato ad approfondire la mia vita di unione con Dio.
Grazie a questo metodo, ho trovato la pace in me stesso, riflettendo sulla grandezza di Dio e sulla bellezza di quello che Lui ha creato in questo mondo.
Il contatto con la natura è il contatto con Dio. L’atmosfera di serenità in cui ho davvero trovato la presenza di Dio, mi ha dato nuove energie per procedere sulla strada della mia vita religiosa betharramita.
Sono venuto a conoscenza del lavoro dei primi missionari betharramiti che hanno trascorso la loro vita con la gente di Mae Jam. Molti Kariani li sentono ancora presenti nella loro vita di ogni giorno.
 
David Phithak Bi-Thu, scj


***
 
Innanzitutto vorrei ringraziare Dio per avermi dato l’opportunità di riflettere e di riscoprire la mia vita spirituale. È stata anche l’occasione per ritrovare l’energia per continuare il mio percorso nella vita di seminario.
Molte grazie a P. Jiraphat Raksihao SCJ, nostro superiore, per aver organizzato questo ritiro.
Gli abitanti del villaggio ci hanno riservato un’accoglienza molto calorosa e ci hanno aiutato anche a risolvere problemi di ordine pratico. Il ritiro è stato guidato dal nostro superiore, P. Jiraphat. Mi sono costruito il mio eremo con la paglia raccolta nei campi di riso. Era la prima volta che mi costruivo un eremo. L’ho fatto in silenzio. Ne ero fiero.
Anche l’atmosfera facilitava questa esperienza dell’amore di Dio. Contemplavo albe e tramonti. Non mancavo mai di ringraziare Dio per questo amore disinteressato che riversava su di me e sui miei amici.
Ogni giorno, P. Jiraphat mi suggeriva i temi di riflessione perché li integrassi nella mia esistenza. Ho fatto anche esperienza di deserto stando nel mio eremo a riflettere sui vari aspetti della mia vita. Ho considerato una grazia che, per qualche giorno, fossero alcuni anziani del villaggio a condividere con noi la loro esperienza avuta con i missionari Betharramiti che, anni fa, erano venuti a piantare il seme della fede convertendoli al cristianesimo. Ci hanno anche raccontato di quando i primi Betharramiti fondavano nuovi villaggi.
L’assenza di distrazioni ha facilitato il mio rientrare in me stesso per considerare alcuni aspetti della mia vita, soprattutto la mia vita di unione con Dio. Posso dire in tutta franchezza: “Ti amo, Signore”, perché fin dal primo istante della giornata, al risveglio, sentivo il cinguettio degli uccelli e contemplavo il sorgere del sole e il suo tramonto.
Con una camminata di tre ore e mezzo, ho raggiunto la montagna di Inthanon. Durante l’ascesa ho immaginato di seguire le orme dei Missionari Betharramiti, di sperimentare le loro difficoltà ed ho espresso dentro di me tutta  la mia gratitudine verso di loro.
Durante il ritiro ho sperimentato l’amore che Dio riversa su di me attraverso le sue creature; ho preso coscienza della mia forza e delle mie fragilità. Ho apprezzato la bellezza della natura e il valore dei miei fratelli.
Ho preso inoltre coscienza del dono della vocazione che ho ricevuto: Dio mi ha chiamato a seguirlo e ad imitare il suo stile di vita. Durante il ritiro ho superato ostacoli e difficoltà interiori ed ho preso maggior consapevolezza della mia reazione di fronte alla società e alla comunità. P. Austin mi ha suggerito le cinque tappe degli esercizi spirituali, che sono risultate molto utili per il mio esame di coscienza. Eccoli:
Primo: prima di andare a riposare la sera, ringrazia il Signore per il dono della giornata. Questa è la chiave della gioia.
Secondo: chiedi al Signore di illuminarti circa le cose che avresti potuto fare meglio.
Terzo: immagina che la tua vita sia come un film (fai scorrere la tua giornata: cosa sta operando Dio nella tua vita?)
Quarto: chiedi a Dio la grazia della guarigione.
Quinto: chiedi al Signore la grazia di fare la sua volontà e di compiere meglio il tuo dovere domani. Come san Michele faceva al termine della giornata.
Ho veramente apprezzato l’essenzialità di questa esperienza perché ho potuto trovare l’amore di Dio dovunque ed essere riportato alle mie radici.

 

Emilio Sanan Pleepor, scj

 


Spiritualità laicale

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LA GRANDEZZA DEL MATRIMONIO CRISTIANO NELLE FRAGILITÀ UMANE

I laici associati di Bétharram a Adiapodoumé (Costa d’Avorio) si danno appuntamento una volta al mese per pregare insieme e dibattere su temi cruciali della loro vita di cristiani. Qualche tempo fa si sono interrogati sul sacramento del matrimonio di fronte alle fragilità umane. In questo articolo, ci offrono un riassunto della riflessione sul loro impegno di persone cristiane, sull’esperienza quotidiana e su alcuni aspetti della spiritualità dell’eccomi.

Nella formulazione di questo tema, l’ attenzione è subito attratta da un’antitesi. In effetti, come può la grandezza essere sostenuta dalle fragilità? Come può la grandezza appartenere a persone che “trascinano” numerose debolezze? Come santificarsi attraverso la vita coniugale malgrado le umane debolezze?
In altri termini, nel matrimonio cristiano, che cosa eleva l’uomo, che cosa gli permette di vincere le sue fragilità, di superarle per migliorarsi e santificarsi? In cosa consiste la grandezza del matrimonio cristiano o come rivela tale grandezza? Che cosa fare per rispettare e custodire questa grandezza?

Comprendere il matrimonio cristiano
Il catechismo della Chiesa cattolica, al paragrafo 1601, definisce così il matrimonio cristiano: “Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole”. Si dice inoltre che  “Il matrimonio, contratto tra battezzati, è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento”. È un’unione che dura tutta la vita: è indissolubile. Si tratta di dire a Dio , come il Cristo e  sua madre e sull’esempio di San Michele Garicoïts: “Eccomi” per tutta la vita. Il matrimonio concorre al bene dei coniugi. In questo ambito, il bene più grande è la mutua santificazione degli sposi. A questo livello, quello che San Michele ha detto per la vita religiosa, è valido per la vita coniugale: santificarsi, tendere alla perfezione propria senza cessare di santificare gli altri (DS 329). Il matrimonio mira anche a rendere i “fragili germogli” che ne nascono, degli alberi così profondamente radicati in Dio che sono in grado di resistere a tutti i venti contrari, negatori della dignità umana.
D’altronde, è Dio stesso l’autore del matrimonio. È una grazia che Dio accorda a laici battezzati che non sono chiamati né al sacerdozio né alla vita religiosa. Qui sta la grandezza del matrimonio che si potrebbe qualificare come iniziale.
Il matrimonio è una vocazione che Dio stesso ha iscritta nella natura dell’uomo e della donna. Così l’amore reciproco tra l’uomo e la donna diventa un riflesso, un’immagine (per quanto imperfetta possa essere) dell’amore indefettibile con cui Dio ama l’uomo e dell’amore che il Cristo porta alla sua Chiesa. Ecco la vera grandezza del matrimonio! Dio ha creato l’uomo per amore e l’ha chiamato all’amore. Il matrimonio cristiano è uno spazio privilegiato per l’esercizio di questo amore. Qui si inserisce la fecondità per rendere gli sposi continuatori della creazione: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gen1,28).
Ma se il matrimonio è una vocazione all’Amore, i coniugi non si uniscono per se stessi soltanto. L’amore costruito nella loro famiglia deve irradiarsi verso l’esterno di questo quadro  “privato”; tanto è vero che  “Il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare” (CCC  §1603).
Il matrimonio è una grazia immensa che Dio fa agli sposi. La loro vocazione in questo contesto è quella di essere un piccolo riflesso dell’amore che unisce le tre persone della Trinità e che anima anche gli sposi tra loro e gli sposi con Dio.
L’amore può esistere solo se si dona. Da qui, la vita coniugale è un esercizio di dono e di perdono. L’obiettivo di mostrare al mondo l’amore di Dio deve incoraggiare gli sposi a superare le loro fragilità.

Conservare e far fruttificare le grazie del matrimonio cristiano malgrado le nostre fragilità
Il peccato non è certo una fatalità nell’uomo ma bisogna riconoscere che gli è inerente. Un passo della scrittura non precisa forse che l’uomo non riesce a fare il bene che desidera ma il male che non vuole? Il peccato è dunque la grande fragilità spirituale dell’uomo. La Chiesa, nostra madre, identifica alcuni atti con le offese alla dignità del matrimonio. Cioè l’adulterio, il divorzio, l’incesto, la poligamia.
Altre fragilità esistono: Lo sguardo degli altri e la percezione (l’interpretazione che se ne fa) di questo sguardo / Le relazioni tra parenti acquisiti e la coppia sono spesso origine di fragilità / Il lavoro professionale e la ricerca del denaro e degli onori non sono sempre compatibili con la santificazione del matrimonio / Le relazioni con amici e colleghi possono allontanarci dalla nostra famiglia.
Ci sono anche aspetti fisici che rendono fragile il matrimonio. Si tratta della frigidità, dell’impotenza, della sterilità...
Saper attingere in se stessi e soprattutto in Dio diverse risorse per vivere in un’unione felice aiuta a rinforzare la dignità del matrimonio e a costruirne la grandezza.
Cosa fare quando il peccato o le fragilità sopraggiungono nella coppia? Meglio, che fare perché non sopraggiungano?

Alcuni suggerimenti pratici
Dal punto di vista pratico, ecco come alimentare l’indissolubilità  e la perennità del matrimonio. Non si può tornare indietro, dunque bisogna andare avanti sempre! Per riuscirci, ecco alcuni suggerimenti pratici:
La Preghiera: nessuno può contare solo sulle proprie risorse per vivere il matrimonio; bisogna chiedere l’aiuto a Dio che è la sorgente del matrimonio per meglio consolidarlo. A questo livello è importante curare la preghiera personale per conservare l’intimità con il Signore, ma anche la preghiera di coppia. È necessario definire un tempo, un luogo, una durata e una periodicità per la preghiera della coppia e prepararla con cura. Un ritiro annuale farebbe molto bene alla coppia.
La Comunicazione: La buona comunicazione permette di conoscersi meglio, di sanare eventuali conflitti, di esprimere tenerezza e affetto e conoscere i bisogni da soddisfare nell’altro coniuge. È dunque importante trovare il tempo per stare soli come coppia per vivere insieme momenti di qualità.
Il Perdono: due caratteri diversi non possono vivere insieme senza ferirsi, da qui la necessità di perdonarsi. La parola di Dio dice a questo proposito:  “che il sole non tramonti mai sopra la tua ira”.
La Condivisione: la condivisione a tutti i livelli è davvero necessaria per testimoniare l’amore di Dio. Deve riguardare il denaro, ma anche il corpo.
Infine non bisogna esitare a cambiare il proprio cuore là dove è necessario per creare l’armonia.

Faustin Douh Aguei, Juliette Assienan-Kokola

 


5 minuti con...

... la comunità di Hojai

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Il 26 ottobre 2011 ha segnato una tappa importante nella vita del Vicariato dell’India, e quindi della Congregazione: a nome dell’Arcivescovo di Guwahati, il P. Thomas Mattathilany accoglieva in quel giorno P. Subesh e P. Wilfred per affidare ai Betharramiti la missione di Cristo Redentore a Hojai. È nata così la prima comunità missionaria betharamita,tanto attesa, in India. Quattro mesi dopo, la nuova comunità si è pian piano organizzata e, pur lontana dalle comunità sorelle  di Bangalore e Mangalore, affronta le difficoltà con la dedizione e la speranza dei seminatori.

NEF: La vostra comunità si trova ad Hojai, in Assam, nella parte nord-orientale dell’India. Potete dirci qualcosa delle caratteristiche geografiche e sociali di questa zona del sub-continente? 
- Mukithadhat Shrine (Cristo Redentore). La comunità di Hojai si trova nell’Arcidiocesi di Guwahati. Questa parte nord-orientale dell’India è completamente diversa dal resto dell’India. Si tratta di una regione collinosa, nella parte orientale della catena dell’Himalaya. Le popolazioni indigene di questa regione appartengono a diverse tribù, che erano principalmente monoteiste e animiste, senza contatti con il mondo esterno. Al tempo della colonizzazione, sono stati i Salvatoriani Tedeschi a portare la luce di Cristo in questa terra meravigliosa. Durante la 1a guerra mondiale, questi hanno dovuto sfollare e la popolazione è quindi rimasta senza pastori. In seguito, per la cura pastorale di queste tribù sono stati chiamati i Salesiani, i quali hanno fatto un lavoro meraviglioso qui nel Nord-Est ed hanno creato un buon numero di diocesi e formato preti e religiosi. Bisogna sottolineare che ci sono molte prospettive per continuare questa missione.

Per alcuni anni i nostri giovani in formazione hanno fatto esperienza missionaria nel Nord-Est.  Chi li ha accolti e in quale tipo di ministero sono stati coinvolti?
- I Betharramiti sono arrivati in questa regione con alcuni giovani confratelli inviati qui per un periodo di esperienza pastorale. Siamo stati accolti molto cordialmente dai Padri MSFS (Missionari di San Francesco di Sales), i quali hanno aperto la loro missione ai nostri giovani confratelli poiché potessero fare esperienza. Saremo per sempre grati a questi missionari per la loro disponibilità. Al primo gruppo di nostri confratelli, arrivato nel 2004, fu assegnato il compito di seguire e animare i ragazzi nella scuola e nel pensionato annesso alla missione. Fino al 2010 abbiamo avuto un gruppo di nostri giovani confratelli. A partire dall’anno scorso (2011) gli scolastici di Teologia vengono per una esperienza missionaria durante le vacanze estive. Questa inserzione li mette in contatto con la cultura e le lingue locali di questa regione, in vista di un loro futuro inserimento come missionari. Quest’anno tre dei nostri novizi, Vino, Edwin e Justin fanno parte della nostra comunità di Hojai.

Parlateci della nuova comunità: quando è sorta, da chi è formata; le difficoltà che incontrate.
- Era un sogno da lungo tempo coltivato da tanti betharramiti l’avere una comunità nel Nord-Est dell’India. Durante questi ultimi anni alcuni padri hanno lavorato in diverse diocesi di questa parte dell’India. Con un invito tanto speciale quanto imprevisto, l’Arcivescovo di Guwahati ha trasformato questo nostro sogno in realtà. Il 26 ottobre 2011, la nuova comunità di Hojai viene insediata: P. Subesh, Superiore, P. Wilfred e tre novizi.
Come per ogni comunità, gli inizi non sono stati facili: molta opposizione è venuta, inevitabilmente, da parte dello staff già operante nel campus e da quello della scuola. In mezzo a queste difficoltà abbiamo trovato sostegno in comunità nell’aiuto reciproco: grazie alla preghiera siamo riusciti a guadagnare la fiducia della gente.

L’elaborazione del progetto comunitario è sicuramente un elemento importante della vita comunitaria.  Quali sono i punti più qualificanti, per quanto riguarda la preghiera, la vita comunitaria e la missione?
- La distanza di questa comunità dalle altre del vicariato, ci ha creato qualche difficoltà agli inizi. L’attenzione particolare verso di noi da parte di  P. Biju Alappat, Vicario dell’India, ci ha dato fiducia per affrontare le difficoltà. Abbiamo sentito l’affetto e la vicinanza anche di P. Austin: in questi ultimi quattro mesi è venuto due volte a trovarci. La missione  è molto impegnativa. La nostra vita comunitaria ha come priorità le attività missionarie. Facciamo il possibile perché tutti siamo presenti alla preghiera comunitaria almeno due volte al giorno; un altro punto fermo è il trovarsi insieme a tavola per consumare i pasti.
Una volta al mese ci troviamo con due comunità religiose femminili per una giornata di ritiro. Alcuni religiosi dalle comunità vicine vengono ad animare la giornata con un’ora di meditazione, seguita poi dall’adorazione e dal sacramento della riconciliazione.
Ecco i tre ambiti principali della missione della nostra comunità:
Missione educativa: abbiamo una grande scuola con 1400 studenti e 46 membri appartenenti al corpo docente e non-docente; P. Subesh ne è il direttore.
Missione parrocchiale: nella parrocchia sono presenti tre gruppi etnici, i Karbi, i Garos e i Santali. Siccome i villaggi sono distanti dalla chiesa parrocchiale, ogni domenica, dopo la Messa, ci impegniamo a visitare un villaggio e celebrare l’Eucaristia in casa di una famiglia. Anche in settimana visitiamo i villaggi per fare catechesi e preparare la liturgia domenicale. Stiamo anche cercando di sensibilizzare i giovani che accettino di condividere la nostra esperienza di fede e il nostro stile di vita.
Pastorale con i ragazzi del pensionato: 42 ragazzi in quello maschile e 36 ragazze in quello femminile. È nostro dovere educare questi ragazzi perché diventino cittadini onesti e legati al loro paese. Prestiamo tutte le attenzioni necessarie a questi ragazzi, che vengono da villaggi molto interni della regione. Trasmettendo loro il potere della conoscenza, li aiutiamo ad allargare l’orizzonte del loro sguardo.

Vista la grande distanza che vi separa da Bangalore e Mangalore,  riuscite a mantenere i contatti con le altre comunità Betharramite in India? E con le altre comunità della Regione Beata Miriam, soprattutto la Thailandia?
- Certo, questa è una osservazione molto pertinente. Siamo molto distanti dalle altre comunità del vicariato e a volte abbiamo percepito la mancanza di comunicazione. Ma il calore e l’affetto dei nostri confratelli dell’India meridionale ci aiutano a dimenticare la distanza.

Quale tipo di cooperazione avete con i sacerdoti diocesani e i missionari di altre congregazioni? Riescono a vedere in voi “una comunità in missione”?
-In questa terra di missione non c’è grande differenza tra diocesani e comunità religiose, perché tutti ci sentiamo parte di una sola famiglia. I vecchi missionari di questa regione sono stati felicemente sorpresi nel vedere così tanti giovani religiosi vivere insieme nella comunità. Sono sempre stati molto contenti di vedere una grande comunità lavorare insieme per la stessa causa.  

Nel vostro ministero siete a contatto con i giovani.  Nel progetto comunitario quale posto occupa l’animazione vocazionale?
- Non saprei cosa rispondere a questa domanda. A dire il vero, di questi 1400 studenti nella nostra scuola, 65% sono musulmani, il 33 % sono induisti o tribali e solo 20 studenti sono cattolici. Nostro obiettivo è quello di gettare il seme della fede che poi, in questo 21° secolo, crescerà lentamente. I frutti, se mai ce ne saranno, sono da attendersi nel 22° secolo. Vedremo questi frutti quando saremo al cospetto del Padre Eterno.

Nella storia della Congregazione, c’è un periodo o un avvenimento che rispecchia la vostra situazione e che può guidarvi nel vostro ministero?
- Da noi, religiosi betharramiti, ci si aspetta che accettiamo di essere inviati là dove altri non sono disposti ad andare. Per questo motivo, trovandoci in questo luogo di missione, sentiamo di essere nella scia tracciata dal nostro padre, san Michele. Anche rientrare in Cina e ristabilirvi la nostra presenza è un sogno della nostra Congregazione. Lavorando qui, vicino al confine con la Cina e con il popolo dei Mongoli, abbiamo la sensazione che questo sogno diventerà una realtà.

 



 

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3. IL CAPITOLO GENERALE DEL 1903 


Questo Capitolo Generale merita un trattamento a parte, per la sua importanza e per il contesto storico in cui si è celebrato.
Le società liberali dell’Ottocento e dei primi del Novecento, soprattutto nei Paesi latini dell’Europa e dell’America, condussero un’aspra battaglia contro la Chiesa cattolica e le sue istituzioni, in particolare le scuole e le Congregazioni religiose. In molti Paesi del Sudamerica, in Portogallo, in Spagna, in Italia, furono emanate leggi per espropriare, incamerare e poi vendere i beni ecclesiastici. Gli Ordini e le Congregazioni religiose persero tutti i beni finora posseduti: scuole, conventi, monasteri, chiese, case religiose; solo gli ospedali furono risparmiati. In alcuni casi poi fu vietata, tramite apposite leggi, la vita religiosa, oppure il vivere stesso in comunità, persino i voti religiosi.
In Francia, nel 1901, fu emanata la “legge delle Associazioni”, che in sé era assolutamente innocua: per vedersi riconosciuta legittimità giuridica, ogni associazione, culturale o religiosa, doveva far richiesta di un permesso governativo. Lo stesso iter doveva essere seguito dalle Congregazioni religiose, considerate alla stregua di qualsiasi altra associazione religiosa. Ma lo Stato trovò il modo di negare a tutte le Congregazioni religiose del territorio francese l’autorizzazione ad esistere: non riconosciuti, gli Istituti religiosi vennero di fatto sciolti, i loro membri obbligati a disperdersi e le loro case confiscate e poi messe in vendita.
Lo stesso accadde per i Betharramiti. La domanda di autorizzazione, depositata alla Camera a Parigi il 18 settembre 1901, venne respinta il 18 marzo 1903: da quel giorno la Congregazione di Bétharram non aveva più alcun diritto di esistere, era soppressa dal Governo. Le residenze vennero chiuse, la vita comunitaria vietata, i religiosi obbligati a lasciare le loro case e a disperdersi.
Ad eccezione dell’Argentina e della Palestina, la Congregazione non aveva altre residenze se non quelle di Francia. Anni di lavoro furono vanificati nel giro di poche settimane. Tutte le comunità, molte delle quali erano state fondate all’epoca di san Michele, furono chiuse: Bétharram, Bayonne, Orthez, Oloron, Anglet, Pau, Sarrance. Erano luoghi carichi di ricordi, legati all’attività e all’opera del Fondatore e di padre Etchécopar.
L’atto finale di questo attacco alle istituzioni religiose avvenne il 14 agosto 1903, quando la polizia giunse alla casa madre di Bétharram per eseguire l’ordine di espulsione dei religiosi “manu militari”. Alle 19.40 di quella sera il commissario di Polizia con un laconico telegramma poteva trionfalmente annunciare che:
Stabile evacuato alle ore 7 senza troppe difficoltà, ma grazie a gendarmi a cavallo che hanno potuto tenere a bada una folla di circa mille persone che gridava: Viva la libertà! Viva i padri! Malati raccolti da famiglie malgrado pioggia battente. 200 persone continuano stazionare davanti stabile
In questo contesto, il 10 agosto 1903 si apriva ad Irun, in Spagna, il Capitolo Generale più difficile nella storia di Bétharram. I Padri capitolari infatti erano chiamati a prendere tutte le misure necessarie per la salvaguardia dell’Istituto e delle sue opere in Francia; per il mantenimento della vita religiosa; e per il futuro dell’Istituto stesso, la salvaguardia della regolarità della formazione e degli studi delle giovani leve.

Roberto Cornara

 

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