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14/12/2010

Notizie in Famiglia - 14 gennaio 2011

Sommario

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La parola del Padre generale

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Abbiate sempre davanti agli occhi…

Abbiate sempre davanti agli occhi per prima cosa e soprattutto Dio e la sua adorabile volontà; poi la nostra forma di vita, che tanto bene esprime questa volontà divina per ciascuno di noi. Sforzatevi con tutte le vostre capacità di tendere a questo fine, nella misura che vi è concessa dalla vostra condizione spirituale e dalla vostra posizione, abbracciandole con una immensa carità ed in tutta la loro estensione, pur rispettando con virginale delicatezza i limiti dell’una e dell’altra (DS 89-90).

Queste parole di San Michele Garicoïts esprimono in modo chiaro e fermo tutta la bellezza della vocazione del consacrato, di colui che ha deciso di vivere, radicalmente e seguendo Cristo, la sua condizione di creatura sottomessa e dipendente, nella consapevolezza che tutto ciò che esiste e vive altro non è che un dono di Dio. La nostra ragione d’essere è la priorità di Dio nelle nostre vite, in quanto è l’unica cosa necessaria: Dio, la sua santa volontà, la nostra forma di vita, la sua grazia e la nostra situazione di vita...
Il nostro Dio è il Dio di Gesù Cristo. Un Dio-Amore che vive la comunione nella diversità di tre persone. Un Dio-Amore che è Padre ed ama l’umanità al punto da mandarle suo Figlio; fatto uomo nel seno della Vergine Maria ed ubbidendo al Padre, Egli è passato nel mondo facendo il bene e sacrificando la vita sulla croce per la salvezza degli uomini. Il Padre lo ha risuscitato, manifestando in tal modo la sua fedeltà alla promessa ed accettando la sua offerta d’amore per la nostra salvezza. Un Dio-Amore che continua ad essere presente negli uomini con il suo Spirito, che santifica i discepoli dell’amato Figlio Gesù e che, per mezzo della Chiesa, continua la sua missione: operare per un mondo nuovo.
Essere Religiosi del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram è ben di più che pregare da soli o insieme, ben di più che dar vita a grandi e numerose attività pastorali e ben di più che dedicarsi a determinate devozioni. Vivere da Religiosi di Bétharram significa sentire e manifestare una comunione permanente con Dio, non solo nella preghiera, nelle circostanze derivanti dalla propria posizione e nelle relazioni con i fratelli in comunità, ma anche nei rapporti con gli uomini e le donne che Dio ci ha affidati nella nostra missione, e nelle iniziative pastorali. La loro finalità risiede nello scoprire l’azione di Dio tra gli uomini e nell’annunciare loro l’amore di Dio manifestatosi nella persona di Gesù.
La dimensione teologale della nostra vita dipende dal fatto che, con voto pubblico, abbiamo scelto liberamente che Dio sia la sola cosa di cui abbiamo bisogno. Abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, ci abbiamo creduto, e abbiamo risposto a Dio consacrandogli la nostra vita, vivendo per lui e riconoscendo in ogni cosa la sua amorosa presenza. Gli abbiamo risposto secondo i criteri che il Vangelo ci indica, portando ogni giorno la nostra croce così come Egli ci ha insegnato. Dedichiamo inoltre il nostro tempo, le nostre intelligenze e le nostre persone alle Sue richieste, al Suo progetto di salvezza, al Regno, per amare e servire in ogni cosa la sua divina maestà (Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 233). Il religioso è uno che ha costruito il suo progetto di vita sul comandamento evangelico: Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5). Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso (Mt 22,38-39).
Da ciò la coscienza teologale della nostra vita trae come conseguenza uno stile di vita caratterizzato dalle virtù cristiane che esprimono la nostra divina condizione di figli: umiltà, obbedienza, fede nella Provvidenza, lode, adorazione e amore filiale. Ma anche gratitudine, devozione, servizio di Dio e dei suoi progetti, ricerca della verità, ascolto della sua parola, preghiera e prudenza, nonché il discernimento della volontà divina negli avvenimenti che si susseguono a livello delle nostre responsabilità... espressioni tutte dello spirito filiale che emana dalla certezza di essere figli perché abbiamo ricevuto tutto dal Padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (Lc 15,31).
Un’altra conseguenza dedotta dalla coscienza teologale della nostra vita è uno stile di vita caratterizzato dalla fraternità, e dalla consapevolezza d’essere fratelli di qualsiasi uomo nel quale riconosciamo un figlio di Dio: un uomo come noi, un fratello di Gesù Cristo che, incarnandosi, si è unito ad ogni altro essere umano. Scaturiscono da ciò le virtù cristiane: non stimarsi superiori agli altri e non rivaleggiare, ascoltare, rispettare e tollerare, essere indulgenti, praticare la castità, la dedizione, mostrarsi disponibili, giusti, compassionevoli per coloro che soffrono, difendere gli umili e saper perdonare.
La coscienza teologale della nostra vita implica anche il dar prova di libertà nei confronti di quanto Dio ha creato e ci ha affidato. Lo potremo mostrare con un uso responsabile dei beni di questo mondo – che ci aiutano a sentirci figli di Dio e fratelli degli uomini – invece di lasciarci possedere da essi. Ma lo manifesteremo anche rinunciando alla ricerca di gratificazioni e non facendoci abbattere da umiliazioni, persecuzioni e da ogni altra forma di sofferenza, cercando invece in ogni avvenimento il volto di Dio, la sua presenza nella nostra vita, e facendo sempre la sua volontà, nelle situazioni favorevoli come in quelle sfavorevoli. Tutto ciò si traduce nella padronanza di se stessi, nella rinuncia e nella temperanza, nella povertà e nella carità, in uno stile di vita semplice e nella forza d’animo.
In questo inizio d’anno sarà bene che ogni Betarramita, dovunque si trovi, ravvivi la sua identità di consacrato. In tal modo i copiosi doni dello Spirito che il Signore riverserà su di noi in occasione del Capitolo Generale ci riempiranno di gioia e felicità.

Gaspar Fernandez,SCJ


nef-etchecopar.jpgPadre Auguste Etchecopar scrive...
alla sorella Madeleine, 5 gennaio 1895

Carissima sorella, la stella della fede ci guidi, sulle tracce dei Magi; la  Santa Speranza sostenga e fortifichi i nostri passi; l’Amore ci unisca al Dio d’Amore, all’Immenso, all’Eterno diventato piccolo e bambino di un giorno in una Mangiatoia per amore e per rapire il nostro amore.
“Ci dona la sua legge, dona se stesso. In contraccambio, ci chiede di amarlo! O legge sublime e meravigliosa! Quanti motivi, quale grande dolcezza il donarsi con amore e nella fede a questo Dio”.
Questi i miei auguri di buona festa per le tue gentilezze e il tuo affetto, per tutto quello che devo a coloro che mi aiutano nel nome del Signore …
Grazie della tua lettera. Mi è giunta in un momento di grande agitazione dovuta alle visite di capodanno. Ho ricevuto i nostri nella mia camera, e ho dato a ciascuno, come d’abitudine, una manciata di dolci. Ho rinunciato ad andare al Collegio, a causa della neve; ma gli alunni sono venuti qui, un’ottantina circa, e nella nostra sala di comunità, intorno ad un bel fuoco, hanno declamato e cantato i loro auguri.


"Uomini di Dio"

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E se andassimo al cinema?

Capita a tutti di avere del tempo libero, e ci sono mille e più modi per occuparlo. Andare al cinema, a volte, è un’occasione per trascorre una bella serata in compagnia. Dalla visione di un film può nascere lo stimolo per una revisione della vita comunitaria.
Quando abbiamo a che fare con un mezzo di comunicazione non possiamo non considerare che esso dà sempre una rappresentazione del mondo che ci circonda, dei suoi valori, dei suoi giudizi e della sua cultura. Le potenzialità del "visivo" sono notevoli nell'ambito della formazione specialmente per quanto riguarda alcuni aspetti in particolare: il realismo rappresentativo e la concretezza del linguaggio audiovisivo cinetico che si accompagnano ad una forte sollecitazione della sfera emotiva e affettiva.
E se andassimo al cinema a vedere “Uomini di Dio”?
A tale proposta mi sembra di sentire le varie risposte dei confratelli: "Se devo perdere del tempo, so io come perderlo"! "Piuttosto che sedermi a vedere un film, mi leggo un libro"! Risposte legittime che non mi permetto di contestare: ognuno deve organizzare il proprio tempo libero come meglio crede. Ma …
Sulla scia de "Il grande silenzio" di Philip Gröning, docu-film in cui il tempo cinematografico è quello vissuto quotidianamente dai monaci certosini, ho assistito alla proiezione di "Uomini di Dio". Il film rievoca la drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati a Tibhirine, sulle montagne dell'Atlante, in Algeria, nel marzo del 1996.
Convinto di vedere messe in scena delle vicende legate alla complessa indagine giudiziaria non ancora conclusa, mi sono trovato a scoprire la vita monastica dei protagonisti, immersi nella natura tra lavoro, preghiere, canti, pasti e impegno per il prossimo. Non è un thriller politico su intrigo internazionale e non propone i protagonisti come martiri da strumentalizzare. Per questo mi sento di proporne la visione! Abituati a velocità, effetti speciali e rumori assordanti, mi sono trovato di fronte ad un mondo fatto di lentezza, contemplazione e popolato di persone capaci di un amore e una compassione straordinari, pronti all'estremo sacrificio pur di dedicare la propria vita agli altri.
Qui ho ritrovato le linee che descrivono il monaco cistercense (trappista): “Il monaco cistercense non vive da solo, ma si unisce ad altri fratelli per cercare insieme Dio, in una comunità, sotto la guida di un abate. In questa ricerca di Dio, la vita fraterna ha un ruolo primario come scuola di carità, dove persone unite da uno stesso desiderio si scambiano aiuto e conforto. Essa permette inoltre una progressiva presa di coscienza delle proprie debolezze e dei propri limiti. Sperimentando la propria miseria nella misericordia di Dio, il monaco viene gradualmente condotto in un cammino di umiltà e di comprensione verso i fratelli. Mentre la pazienza dei fratelli nei propri riguardi gli fa toccare qualcosa della tenerezza di Dio. Così la comunione fraterna diventa in certo modo segno della carità che regna nel cuore della Trinità. Un anziano sarà esempio e segno di speranza nel momento della prova e l'amicizia e la solidità di un altro fratello un aiuto nel momento della difficoltà. Tutto nella giornata, la preghiera, il lavoro, la lettura, i pasti o il riposo, si vive in comune, tuttavia in un clima di solitudine favorito dal silenzio, segno di delicatezza e di attenzione rispettosa verso i fratelli. Nella comunità il monaco vive nella fedeltà e nella perseveranza fino alla morte. Cerca l'unità con l'abate e con i fratelli nell'obbedienza reciproca, nella corresponsabilità, nel dialogo, nella vera libertà e nella disponibilità ad una autentica amicizia” (dal sito www.trappisti.org).
Devo comunque dire che non si tratta di un film facile; allo spettatore è richiesta un'attenzione costante, sia visiva che uditiva, per due ore. Denso di dialoghi, studiato nelle inquadrature, raffinato nelle scelte musicali, il film comunica con tutti gli strumenti a disposizione del cinema. La pellicola descrive un percorso spirituale, l'avventura e il travaglio di una ricerca di se stessi: è interessante scoprire che alla vita diurna del convento, scandita dal susseguirsi rigoroso degli atti comuni, corrisponda una vita notturna molto movimentata, in cui esplodono le angosce, il dubbio, l'implorazione.
Un film che stimola a meditare, a ricercare, a mettere a fuoco verità intraviste nel vissuto quotidiano. Un film che offre lo spunto per un dialogo in comunità sul come ognugno gestisce la propria vita accanto ai confratelli. Un film che ci permette di approfondire le nostre convinzioni sull’autorità, il servizio, la vita di preghiera, la libertà di esprimere le proprie idee nel rispetto di quelle degli altri. Un film che narra della ricerca di Dio, narra del dialogo tra le religioni, narra del tema del martirio, narra dell’amore che si fa vita. Un film che narra dell’umanità anche fragile dei monaci, delle loro discussioni sul rimanere o sul partire, sul senso dell’autorità, delle loro biografie che emergono come pezzi di un grande puzzle nei colloqui tra loro, man mano che la decisione di rimanere fedeli alla propria vocazione in terra mussulmana si fa sempre più chiara e convinta.
Ho visto il film e sto ancora cercando di decifrarlo. Film lento e ricco di paesaggi, anche umani.
Di fronte allo scorrere delle immagini, e della vicenda, mi è successo di ragionare su cosa significa credere in Dio, su cosa significa essere religiosi, su cosa vuol dire mettere la propria vita al servizio del prossimo, sulla vocazione che sembra vacillare di fronte alle crudeltà della vita, ma che allo stesso tempo riporta sui giusti binari, spinge al pensiero; è solo dopo matura riflessione che si decide di continuare a camminare verso un’unica direzione, che si decide di andare avanti, di incontrare l’altro.
Mi sono trovato di fronte a una visione critica della spiritualità che porta a fare delle scelte solo apparentemente incoscienti, spiritualità che porta ad essere pluralisti. Spiritualità che porta anche a morire, a morire per incontrare l’altro. Qui si parla di comunione, di andare con l’altro, anche se diverso, uguale e fratello, anche nella morte, anche se ci porta al martirio (è la scena conclusiva). La morte assume un carattere sacro e tutto si fa unico: i monaci, il monastero, il villaggio, i soldati. Tutto si unisce in un finale tragico quanto straordinario.
I brani del testamento spirituale del priore, padre Christian de Chergé, i versetti dei salmi che vengono citati, alcune riprese della liturgia forniscono testimonianze di una ricerca spirituale alta, vissuta in una quotidianità semplice e povera.
È una vita povera ma ricca in umanità, ben resa dalla figura di fratel Luc, il medico che cita Pascal (“Non si fa mai il male così pienamente e così allegramente come quando lo si fa per coscienza”), nella cui cella non a caso viene posta una riproduzione della Flagellazione di Cristo del Caravaggio e che nella (ultima) cena prima del rapimento offre ai confratelli il vino migliore (calice) e le struggenti note de “Il lago dei cigni” di Tchaikovsky.
Sono arrivati anche i titoli finali e la meraviglia nel vedere le persone in sala che, in piedi, hanno atteso che terminasse la colonna sonora. Uscito dalla sala e in cammino verso casa, ho ascoltato il commento di una signora che mi ha colpito: “il regista ha saputo umanizzare la figura dei monaci”. Ma ...
Siamo proprio così fuori dal mondo? C’è, credo materiale sufficiente per riflettere sul “nostro” modo di vivere la “nostra umanità”, la “nostra carità” e la “nostra vita in comune”.

Angelo Riva,SCJ

SCHEDA DEL FILM

« Uomini di Dio »
Data dell’uscita: 8 settembre 2010
Regia di Xavier Beauvois
Con Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin,...
Lungo metraggio francese
Genere : Dramma
Durata : 02h00min

Sinossi
Un monastero, appollaiato sulle montagne del Maghreb, negli anni  1990.
Otto monaci cristiani francesi vivono in armonia con i  loro fratelli musulmani...
Quando una squadra di lavoratori stranieri viene massacrata da un gruppo islamico, il terrore si impossessa della regione. L’esercito offre protezione ai monaci, ma questi la rifiutano. Devono partire?  Nonostante le crescenti minacce che li circondano, la decisione dei monaci di restare ad ogni costo, prende sempre più corpo col passare dei giorni…
Il film si ispira liberamente alla vita dei Monaci Cistercensi di Tibhirine, in Algeria dal 1993 fino al loro rapimento nel 1996.


Preparazione spirituale al Capitolo generale

Georges de La Tour - Natività (1645)
  

L’INCARNAZIONE : DIO NELLA DEBOLEZZA UMANA
1. Betlemme, “la piccola” (Michea 5,1)

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L’Onnipotente ha voluto condividere la nostra debolezza assumendo la condizione umana: questo è il meraviglioso mistero dell’Incarnazione, cuore della nostra spiritualità. Il carisma di Bétharram, “l’Ecce Venio del Cuore di Gesù” è un tesoro straordinario; ci è dato in dono ma lo portia-mo in “vasi d’argilla”.
Ecco il primo di quattro appuntamenti mensili: ci preparano spiritualmente al Capitolo Generale di Betlemme (14-31 maggio) attraverso il ritiro predicato a Adiapodoumé nel dicembre scorso.

Betlemme non era sconosciuta nell’Antico Testamento, eppure la sua importanza è stata relativa a causa proprio della sua posizione geografica, a 12 km da Gerusalemme. C’è un contrasto voluto tra la grande e orgogliosa Gerusalemme e l’umile borgata di Betlemme, all’entrata del deserto. Il profeta Michea si è compiaciuto nel sottolineare che è nella piccolezza, nella debolezza che la potenza di Dio si manifesta. Questa profezia era ben nota al popolo ebreo; prova ne è il fatto che, nell’episodio dei Magi, (Mt 2,6), Matteo ci fa sapere che gli scribi hanno citato al re Erode la frase di Michea per guidare il cammino dei magi verso Betlemme. Ma chi si ricordava che Gesù era nato a Betlemme? Per i suoi contemporanei, lui era il Nazareno.
Quando Dio interviene nel mondo, non passa attraverso i centri importanti di influenza, ma attraverso i villaggi che non contano. Dio viene a sconvolgere la storia degli uomini a partire da ciò che non ha importanza ai loro occhi. D’altronde, non è forse sorprendente che Dio abbia dato questa lezione a Samuele, a Betlemme: “Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura; l’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam16,7)?
A Betlemme, è in una stalla, un rifugio per animali che il Figlio di Dio nasce! San Michele è sorpreso da questo abbassamento volontario: “Il Verbo Incarnato, è un Dio annientato e offerto. Dal seno del Padre al grembo di Maria, quale passo! Lasciando questo cielo animato, va nel luogo più umile, il più sgradevole del mondo, in una stalla!”. E tutto questo accade di notte come se Dio volesse nascere nella più grande discrezione, senza splendore. Alla nascita del bambino, Maria non è la testimone di uno sfavillio di stelle e di canti che facciano accorrere magi e pastori. Il suo tesoro, lei lo scopre nella penombra della stalla. Lei lo fascia, lo adagia e lo veglia. Si cercherebbe invano in questa scena di intimità il minimo segno celeste, come quello che annuncia il mondo circostante …
Nel Magnificat, Maria proclama l’azione salvifica di Dio che la raggiunge anzitutto perché lei è “l’umile ancella del Signore e perché confonde gli uomini dal cuore superbo” (Lc 1,48-52).
Betlemme è sempre considerata anche una Buona Notizia di cui i primi ad essere informati sono i pastori, i piccoli, gente che non conta; vivono ai margini del villaggio, vicino ai greggi e per questo non sempre possono essere fedeli alle regole della religione ebraica. Se Dio si fa umile e povero, è perché i più disprezzati, i marginalizzati non abbiano paura di Lui e possano avvicinarsi a Lui in tutta semplicità; solo dei pastori possono trovarsi a loro agio davanti a un bambino deposto in una mangiatoia, è il loro habitat quotidiano! L’umiltà di Dio può permettere questa fraternità tra gli uomini, tra piccoli e grandi. I pastori, «queste persone sono malviste in Israele perché vivono ai margini della comunità praticante. Sono dei piccoli, dei poveri». Sono i primi testimoni a Betlemme. Con i pastori, abbiamo la perfetta illustrazione di quello che Gesù proclamerà: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). continua...

Laurent Bacho,SCJ
estratti dal ritiro alla Fraternità Nè Mè (18/12/2010)


Argentina; Missione d'estate 

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Procurare agli altri la stessa gioia

Da ormai oltre venticinque anni, i Betharramiti di Argentina e Uruguay - religiosi e laici - si sono sentiti  chiamati a rinnovare il loro impegno nella missione, andando oltre le frontiere delle opere tradizionali (collegi), e lavorando all’evangelizzazione di diverse località del Nord-Est dell’Argentina e in Bolivia. Questo rinnovamento dello spirito missionario è uno dei frutti maturati grazie al ritorno alle sorgenti del nostro carisma: Bétharram è nato povero, umile, per la missione. Ne è derivata una tradizione missionaria caratterizzata, tra l’altro, dall’apporto della CoLaMiBe (comunità di laici missionari betharramiti) con la figura emblematica della coppia Barreiro-Flores. L’animazione missionaria ha preso tutto il suo slancio grazie agli sforzi dei Superiori provinciali, i Padri Chivite, Ierullo, Fernandez Perez, ed è stata sostenuta dallo sforzo instancabile e generoso di P. Sergio Gouarnalusse.
Oggi questo slancio continua ed ha come slogan per questo anno, per la missione interna di Betharram: “Procurare agli altri la stessa gioia”. Questa frase, tratta dal testo fondante della nostra Congregazione (il Manifesto che san Michele Garicoïts ha scritto nel 1838) mette in luce il senso profondo della nostra missione. L’evangelizzazione consiste nel condividere la gioia che sperimentiamo attraverso l’incontro con il Dio d’Amore nella nostra vita, nella nostra storia. Significa poter dire, con san Giovanni (1 Gv 4,16): «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi», e lanciarsi in questa avventura: comunicare l’amore di Dio al di là di ogni frontiera.
È l’esperienza fatta da san Michele e dai suoi primi compagni da oltre 150 anni, rispondendo senza ritardo alle invocazioni dei loro fratelli, gli abitanti di queste immense pampas che avevano bisogno di pastori e di educatori. È l’esperienza di molti betharramiti, quella di cui ognuno di noi può fare memoria quando abbiamo lasciato tutto per seguire Gesù e consacrare la nostra esistenza per conoscere questa gioia e per farla conoscere nell’incontro vivificante con il Risorto. È la stessa esperienza che vogliamo continuare, facendo eco nei nostri cuori alla chiamata di Cristo: “Andate, di tutte le nazioni fate dei discepoli” (Mt 28.19).
Infine, la missione nelle nostre terre latino-americane ha un tono particolare: da decenni ormai la Chiesa di questo continente invita all’opzione preferenziale per i poveri. Noi oggi la facciamo nostra, cercando di scoprire il volto di Cristo in quelli che incontriamo: contadini spogliati delle loro terre, vittime del mal di Chagas, delle carenze del sistema educativo e sanitario, del clientelismo politico, di diverse forme di sfruttamento … In mezzo a questa realtà, Gesù ci ripete il suo invito a «procurare agli altri la stessa gioia». Che la Vergine di Bétharram, nostro Padre san Michele e Padre Augusto Etchecopar intercedano per noi perché possiamo consacrarci con tutto il cuore a questa missione. Avanti sempre!

Guido Garcia,SCJ

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CANTO DELLA MISSIONE ESTIVA 2011
autore-compositore: Leandro (Adrogué)
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Queremos ser el eco de la voz de Dios
Allí donde se rinda un corazón
Lograr en los demás la misma felicidad
De haber sido llamados a Su amor.

La vida se acrecienta compartiéndola,
Aislada, debilita su motor;
Queremos reemplazar la tibia comodidad
Por el gozo de cumplir nuestra misión.

Por eso, Padre, envíanos, envíanos,
Oh, Cristo, bendícenos y guíanos,
Espíritu, que seas tú quien borre
las fronteras a la nueva del amor.

Vivimos tan sedientos del amor de Dios
Que no podemos menos que ir por más;
Sembrar y consolar, la vida plenificar
Gritando convencidos “¡aquí estoy!”

María, nuestra madre y madre de Jesús,
Primera misionera del Señor,
Nos acompañará y a su Hijo le pedirá
Que podamos ser el eco de su voz.

Vogliamo essere ll’eco della voce di Dio
Là dove ridà coraggio
Procurare agli altri la stessa gioia
d’essere stati chiamati al Suo amore

La vita cresce quando si condivide
Isolata, perde la sua forza
Vogliamo sostituire la facile tiepidezza
Con la gioia di riempire la nostra missione

Per questo, Padre, inviaci, inviaci
O Cristo, benedici e guida il nostro cammino
Spirito, elimina le barriere
Davanti alla buona novella dell’amore

Abbiamo così tanta sete dell’amore di Dio
Che non possiamo non andare oltre
A seminare e consolare, intensificare la vita
Gridando, convinti: “Eccomi!”

Maria, nostra madre e madre di Gesù
Prima missionaria del Signore
Ci accompagnerà e pregherà suo Figlio
Che faccia di noi l’eco della sua voce


5 minuti con... Padre Koutouan Nanghy Omer

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Ordinato sacerdoce l'anno scorso, Padre Koutouan Nanghy Omer ha 32 anni; è membro della comunità di formazione di Adiapodoumé, nella grande Abidjan. Mentre si sta svolgendo il Capitolo della Regione S. Michele (Betharram, 13-18 gennaio), la NEF ha voluto dare la parola ad un religioso sul campo...

Nef: Come sei entrato in contatto con Betharram; da cosa vi sei stato attirato?
- Anzitutto devo dire che, proprio perché cristiana, la mia famiglia ha accolto con favore il mio desiderio di farmi prete. È grazie alla sorella minore di mio padre che ho potuto incontrare un religioso camerunense. Alla fine dell’incontro mi ha detto: “Perce-pisco in te una vocazione di betharramita”. Ignoro l’origine di questa parola ‘profetica’, in ogni caso era molto amico di P. Barnabé, che all’epoca era ancora fratello. Fu così che, accompagnato da mio padre, sono arrivato alla comunità di Adiapodoumé… Tutto è partito da lì. Sono stato attirato prima di tutto dalla calma: lontano dai rumori della mia terra natale, Abidjan, uno spazio caratterizzato dal calore di quelli che sarebbero ben presto diventati miei confratelli di comunità.

Quali sono state le tappe o i “misteri” – gioiosi, dolorosi o luminosi – del tuo cammino?
- Se afferro la domanda, direi che la fraternità che abbiamo vissuto durante la formazione, ci ha permesso di vivere una certa giovinezza di spirito. I periodi di inter-noviziato erano momenti di incontro con altre realtà di istituto e di cultura, poiché si incontravano molte nazionalità; si viveva veramente l’universalità della Chiesa. Anche gli studi di filosofia e di teologia mi hanno aiutato a maturare, soprattutto sotto il profilo umano… Per quanto concerne i misteri dolorosi, ho sperimentato una certa frustrazione quando ho visto respinta la mia prima domanda per i voti perpetui. Ma guardando oggi le cose un po’ più dall’alto, direi che tutto è grazia: ho fatto esperienza del fallimento, dell’incomprensione, e questo mi può aiutare ad essere testimone di speranza là dove vivo. Devo inoltre dire che ho potuto valutare la profondità del mio desiderio di vivere come religioso betharramita e il bisogno di purificazione. Allora, diciamo, senza paura di esagerare, che il mistero doloroso è sfociato nel mistero glorioso!

Sei stato ordinato prete il 5 giugno 2010: quali cambiamenti si sono prodotti nella tua vita?
– Sono rimasto lo stesso Omer, ma lo sguardo che gli altri hanno su di me è un po’ cambiato: sempre di più mi danno del voi ed il mio nome è preceduto da “padre”! Interiormente, sento che è cresciuto in me il desiderio di farmi testimone del fatto che Dio guida le nostre storie personali. Mi sento responsabile della salvezza di coloro che mi sono affidati, tanto che non mi do tregua quando sono sollecitato per un’attività di carattere spirituale. Credo maggiormente nella forza della preghiera e mi prendo a cuore tutte le richieste espresse con le parole: “Padre, prega per me”.

In cosa consiste il tuo attuale ministero a Adiapodoumé?
- Condivido con gli altri religiosi la responsabilità della parrocchia; personalmente, sono il cappellano della pastorale dei giovani e delle CEB (comunità ecclesiali di base) che visito a periodi regolari. Contemporaneamente, c’è la pastorale nelle varie cappelle dove mi reco con grande piacere per incontrare il popolo di Dio nei villaggi.

Fin dalla creazione del 1° collegio nel 1837, la presenza educativa fa parte del DNA di Betharram. Quale posto occupa nella tua vita?
- Sono il cappellano dei giovani a Saint-Bernard, e a questo titolo, l’ufficio giovani ed io lavoriamo per sensibilizzare i nostri giovani verso le sfide da accettare in Costa d’Avorio. Sono convinto che il Vangelo autenticamente vissuto può aiutare a questo scopo! Ricevo anche giovani che vogliono parlare, sapere. Infine, a Tshanféto, cerco di aiutare  P. Alfred per dare un sostegno spirituale e psicologico ai giovani in formazione; bisogna dire che molti di loro arrivano con un vissuto abbastanza pesante.
Immagina un giovane che ti interpelli sulle tue ragioni di vita: cosa risponderesti? - Che la vita merita di essere vissuta e che le prove fanno parte della vita, e che rafforzano la nostra personalità. È per questo che quando sorgono le difficoltà e tutto sembra perduto, bisogna credere in Dio: è il Dio dell’impossibile! D’altronde mi piace dare di quello che possiedo e di quello che sono; far sorridere qualcuno, o asciugarne le lacrime, ecco le mie ragioni di vivere e di sperare!

Con due candidati che si dichiarano presidenti, la Costa d’Avorio sta attraversando momenti difficili da due mesi. Come vivi questa situazione?
- È vero, la situazione è abbastanza complicata; come dice il salmista: anche il profeta e il sacerdote vagano per il paese e non sanno che cosa fare. La gente si aspetta molto da noi sacerdoti, una parola. Da parte mia devo dire, molto onestamente, che su entrambi i fronti ci sono menzogne e falsità. La verità ci è stata confiscata, perché in realtà, c’è un solo presidente eletto! Personalmente, cerco di essere all’ascolto evitando di prendere posizione davanti ai miei parrocchiani. In comunità, se ne parla e se ne discute a partire dai telegiornali e dalla stampa, ma senza troppa passione e cercando di essere abbastanza lucidi circa l’incertezza che pesa su un fronte e sull’altro.

In questo inizio d’anno, quali sono i tuoi auguri per la famiglia di San Michele, religiosi e laici?
- Augurarci di non perdere questa scintilla primitiva che ci ha messi sui passi di san Michele al seguito di Cristo. Essere più fratelli, per testimoniare davanti a tutti che l’amore è possibile e che le realtà materiali non possono  essere l’aspirazione definitiva dell’uomo. Quindi: auguri di un santo e felice 2011 e grazie di questa opportunità che mi avete offerto di condividere qualcosa di me in tutta semplicità. Grazie ancora e avanti sempre!!

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1. UNA BAMBINA DI GALILEA

Suor Maria di Gesù Crocifisso, la giovane galilea analfabeta divenuta la gloria della Terra Santa, ha avuto un destino sorprendente. P. Médebielle, SCJ, lo ha rievocato nel 1983, anno della sua beatificazione, nella rivista del Patriarcato latino, Jerusalem (pp.201-239). Da Pau a Betlemme passando da Mangalore, la beata Mariam ci accompagnerà lungo questo anno di Capitolo Generale e ci aiuti a metterlo sotto il segno dello Spirito!

Mariam Baouardy (1846-1878) era originaria di Abellin, piccolo villaggio della Galilea situato tra Nazareth e Haifa, a tre kilometri, in linea d’aria, a nord di Shefamar. Negli anni trenta, quando P. Brunot lo ha visitato, assomigliava ancora a quello che aveva conosciuto Mariam: viuzze sporche, case scalcinate dove erano stipati 600 abitanti. Ma «il tutto trasfigurato da quel mago incomparabile dell’Oriente: il sole. Abellin era un villaggio povero come tanti altri nella Palestina dei Turchi».
Il padre della futura Beata, Giriez (Giorgio) Baouardy era fabbricante di polveri, da cui il nome; come la moglie, Mariam Shahin, era originario dal vicino Libano. La famiglia, di rito melkita, era povera, laboriosa e pia, ma era stata segnata da una dura prova: aveva perso dodici figli in tenera età, con grande dolore dei genitori. Il padre, falsamente accusato di omicidio, fu imprigionato per un certo periodo a Acri, prima che la sua innocenza fosse riconosciuta e quindi liberato. Padre e madre si recarono in pellegrinaggio a piedi alla Grotta di Betlemme (170km) per chiedere la grazia di un altro bambino, che potesse sopravvivere. Furono esauditi, ed ottennero la grazia di avere una bambina, nata il 5 gennaio 1846, che chiamarono Mariam. Due anni più tardi nacque anche un figlio, Boulos.
Dopo la nascita di Boulos, nel 1848, padre e madre morirono, a qualche giorno di distanza. Una zia materna accolse Boulos a Tarshiha e uno zio paterno prese con sé Mariam nella sua famiglia di Abellin. Mariam si sentiva coccolata presso lo zio, ed apparvero subito segni premonitori. Le era stata regalata una gabbia di uccellini. La bambina volle lavarli, causandone la morte. Nel suo dolore una voce molto chiara, che non avrebbe mai dimenticato, risuonò nella sua anima; tale voce l’ha impressionata per tutta la vita: “È così che tutto passa! Se mi doni il tuo cuore, resterò sempre con te.”
Proprio come tutte le bambine arabe della sua età, non andò a scuola e non imparò né a leggere né a scrivere, dedicandosi solo ai lavori domestici, come preparazione al matrimonio, allora normale per una bambina di 12 anni. Di indole vivace e intelligente, rifletteva sulla parola risuonata quando seppelliva gli uccellini.
Incurante delle preoccupazioni dei suoi per la sua toilette, lei pensava già alla morte. Dopo aver scavato una fossa in giardino, vi si distese, sporcandosi il vestito e attirandosi i rimproveri della zia. Inoltre fu impressionata da due vecchi che facevano visita allo zio: un parente vescovo che le parlò di Dio «da mettere sempre al primo posto»; un eremita di passaggio, che disse allo zio: «Mi raccomando, abbi grande cura di quella bambina. Veglia su di lei».
Coltivava una precoce devozione alla Santa Vergine; teneva nascosto il digiuno del sabato e raccoglieva dei fiori per l’icona della Madonna. Una volta, i fiori misero le radici nel vaso: evento che fece gridare  al miracolo, ma che le attirò anche i rimproveri del parroco, preoccupato della sua umiltà. Mariam conserverà per tutta la vita il commosso ricordo della sua infanzia ad Abellin.

Pierre Médebielle,SCJ

 

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