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20/02/2011

Notizie in Famiglia - 14 marzo 2011

Sommaire

 

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La parola del padre generale

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Umiltà e grandezza di un grande missionario

Questo missionario è San Paolo: i suoi numerosi viaggi, l’aver fondato un gran numero di Chiese e la sua fedeltà, malgrado ogni ostacolo, alla missione affidatagli da Gesù risuscitato, il suo coraggio e la sua dedizione fanno di lui un grande missionario. 

 


Vi invito a considerare come una lectio le due lettere ai Corinzi, al centro delle quali si trova la frase scelta per dare un’impronta all’imminente Capitolo

generale di Betlemme: Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta (2 Cor 4,7). 

Ricordiamo l’entusiasmo del giovane Saul che si presta a custodire i mantelli di coloro che stavano lapidando Stefano (At 7,58), ed il suo accanimento nel dare la caccia ai i cristiani. Però, quando il Risuscitato irrompe nella sua vita atterrandolo, egli incontra il Cristo e si configura a lui, con colui che tu perseguiti (At 9,5). La stessa forza che lo aveva atterrato lo risolleva e lo fa entrare nella città dove gli verrà detto ciò che doveva fare, perché quest’uomo è lo strumento che ho designato per far giungere il mio Nome alle nazioni pagane (At 9,15).

L’incontro trasforma radicalmente l’orientamento della sua vita. Si ritiene ormai il frutto di un aborto (1 Cor 15,8) e si presenta, davanti agli uomini ed alle comunità, in tutta la sua debolezza, timoroso, esitante, incapace di convincere con l’eloquenza (1 Cor 2,1-4). “Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza (2 Cor 11,30), perché ci rallegriamo quando noi siamo deboli (2 Cor 13,9), quando sono debole è allora che sono forte (2 Cor 12,10), anche se sono un nulla (2 Cor 12,11).

Paolo ha due motivi per valorizzare la propria debolezza. Innanzitutto , il fatto d’essere discepolo di Gesù crocifisso: da ricco che era si è fatto povero per voi (2 Cor 8,9). Inoltre, il fatto di essere missionario: solo vedendolo vulnerabile e indifeso, coloro che lo ascolteranno non si fermeranno alla sua eloquenza ed ai suoi argomenti, ma si apriranno al Crocifisso che egli annuncia ed alla  forza salvifica di Dio. ...quando venni in mezzo a voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola e della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso (1 Cor 2, 1-2). 

La ragione di vita di Paolo, così come il significato della sua predicazione, la sua fierezza e la sua gloria, è il Cristo crocifisso (cf. 2 Cor 13, 3-4). In Lui, nella sua debolezza e vulnerabilità, nella sua rinuncia e nel suo annientamento, Dio Padre manifesta il suo potere salvifico. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini… quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio (1 Cor 1, 23-29).

La sua debolezza si manifesta anche nelle prove affrontate, nelle persecuzioni e negli oltraggi sopportati per il Cristo (cf. 2 Cor 4, 8-18) : infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, il nostro corpo non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori all’interno (2Cor 7,5). Questi sono i tratti che l’identificano con il Maestro crocifisso, e ne fanno un discepolo credibile. Ma sono anche i tratti che lo rendono solidale con  uomini e  donne disprezzati ed assetati della consolazione e della salvezza del Dio-Amore. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? (2Cor 11,29). Sono le situazioni in cui Paolo tocca con mano ed impara a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti (2 Cor 1,9). Sono anche le situazioni in cui egli avverte vivamente la consolazione di Dio, la  cosa sola che riempia veramente la  vita e gli dia la forza per la sua missione. Benedetto sia Dio….Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio (2 Cor 1,4). È il modo scelto da Dio per rivelarsi: Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza (2 Cor 12,9).

L’apostolo non si avvale della sua debolezza come pretesto per evitare di impegnarsi, o per mettere dei limiti alla sua dedizione. Al contrario, confidando non tanto in se stesso quanto nella grazia di Dio, Paolo si getta con impeto nel suo compito per portare a termine la missione ricevuta dal Signore, senza lasciarsi spaventare da alcun ostacolo. In questo è radicata la sua grandezza d’animo. Una grandezza che la debolezza di Paolo non infirma.

Nell’imminenza del Capitolo generale, nel contemplare la vita di Paolo, discepolo ed autentico missionario, tutti noi Padri e Fratelli di Bétharram dobbiamo riflettere su cosa veramente motivi la nostra vita di consacrati e la nostra missione, ed invocare la grazia della conversione. Il futuro della nostra famiglia si gioca certamente su una pastorale vocazionale ben organizzata, ma anche e soprattutto sulla fedeltà di noi tutti allo stile di vita evangelico. Quello stile che considera Dio come la sola cosa necessaria e che, per questa ragione, ci conduce ad accettare di vivere secondo la logica, insegnataci da Gesù, del chicco di grano e della lavanda  dei piedi. S.Ignazio di Loyola ha perfettamente colto il concetto nella triplice offerta degli Esercizi: “Eterno Signore dell’universo, con il tuo favore ed il tuo aiuto io faccio la mia offerta davanti alla tua infinita bontà: io voglio e desidero ed è mia ferma decisione, purché sia per tuo maggior servizio e lode, imitarti nel sopportare ogni ingiuria e disprezzo e ogni povertà, sia materiale sia spirituale, se la tua santissima Maestà vorrà scegliermi e ricevermi in questo genere di vita (Esercizi spirituali, n°98).

Gaspar Fernandez,SCJ


nef-etchecopar.jpgPadre Auguste Etchécopar scrive… 
a P. Jean Magendie (a Buenos Aires), il 4 marzo 1894

E’ stato necessario rinviare le ordinazioni. (…) [Gli scolastici] sapranno trarre vantaggio dai tempi più lunghi che la Chiesa nella sua saggezza impone: ci sembra infatti che i sentimenti che li animano sono eccellenti e che, essendo bravi religiosi, diventeranno dei bravi preti, preti sul modello di Padre Garicoïts. Costa fatica; mandare avanti l’insegnamento, la teologia, la propria salute e quella degli altri. Insomma, immolarsi! Ma qual è il segno distintivo di appartenenza dei membri della famiglia? Non è forse qualche tratto del loro Padre? Guardate la sua esperienza: ha accumulato nell’arco di una vita tutte le occupazioni, le più faticose e le più disparate; domestico e allievo fino al Seminario Maggiore; poi sempre padrone e schiavo nello stesso tempo; il primo e l’ultimo, come la testa e l’animale da soma della Comunità!!! Oh!  Abbiamo un bel darci da fare! La natura può gridare, ricalcitrare, arrabbiarsi … Noblesse oblige! La nostra bandiera ci trascinerà; la nostra parola d’ordine avrà la meglio; e, volenti o nolenti, seguirete il buon profumo del vostro fondatore dicendo: piuttosto morire che fuggire!

 


Preparazione spirituale al Capitolo generale

Georges de La Tour - Natività (1645)
  

L’INCARNAZIONE: DIO NELLA DEBOLEZZA UMANA

3. L’umiltà: cammino di verità e di libertà 

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L'Onnipotente ha voluto condividere la nostra debolezza assumendo la condizione umana: questo è il meraviglioso mistero dell'Incarnazione, centro della nostra spiritualità. Il carisma di Bétharram, l' "Ecce Venio del Cuore di Gesù" è un tesoro incomparabile; ci è dato ma lo teniamo in "vasi d'argilla". 
Ecco il terzo dei quattro appuntamenti mensili: ci aiutano a prepararci spiritualmente al Capitolo generale di Betlemme (14-31 maggio 2011) attraverso il ritiro spirituale tenuto ad Adiapoudoumé nel mese di dicembre scorso.

 

L’incarnazione del Figlio vuole convincerci della grandezza dell’amore di Dio Padre che manda suo Figlio a vivere con gli uomini una prossimità straordinaria. Così il Padre ci mostra quanto ci stima e ci apprezza: «È desiderio ardente di Nostro Signore che siamo animati dai sentimenti del suo Cuore» (DS 51). Visto che Dio si prende tanto cura di me, è inutile passare troppo tempo a interrogarmi quanto valgo. Siamo chiamati non ad un’esistenza ripiegata su noi stessi, ma aperta agli altri, prendendoci cura degli altri (Gal 5,22-23). Certo, ognuno di noi ha bisogno dell’amore degli altri, ma quando questo bisogno diventa invadente, perdiamo la nostra libertà; sciupiamo la nostra energia nello sforzo di ottenere riconoscimenti invece di adoperarci per diffondere la gioia intorno a noi: «Nell'ipotesi che una gloria uguale dovesse derivare da Dio per la stima e gli elogi che ci accordano gli uomini, dovremmo avere un amore di preferenza per le contraddizioni e le umiliazioni, al fine di conformarci totalmente ai sentimenti di Nostro Signore» (DS 49). Quando siamo meno preoccupati di noi stessi, le delusioni e anche i fallimenti hanno un valore relativo e sono considerati come legati alla nostra condiziona umana senza che questo ci destabilizzi o ci distrugga: «Nostro Signore è venuto dal cielo per insegnarci ad amare suo Padre, a compiere i suoi voleri, ad apprezzare le umiliazioni e le sofferenze come il mondo stima gli onori, a ricercare la croce con più sollecitudine che non gli uomini del secolo la gloria terrena. Mio Dio, aiutami! Signore, dammi il gusto di queste cose! Fa' che fonte delle nostre  consolazioni siano solo le umiliazioni del tuo Figlio divino!» (DS 109)

A volte questa umiltà ha portato ad alcune deviazioni; non si tratta di avere poca stima di sé misurandosi senza sosta sugli altri, pensando che se siamo deboli è a causa degli altri: « Apprezzare il proprio valore di persona unica e irripetibile non consiste nel credersi perfetto o migliore degli altri. Questo non spinge a paragonarsi agli altri, ad entrare in competizione con loro né a sminuirli … L’amore di sé comincia con un’autentica compassione verso se stessi. Lungi dal litigare a causa degli errori, dal biasimarsi nella sofferenza e di umiliarsi nei fallimenti, la persona che si ama, si ascolta, si consola, si incoraggia e ha fiducia in se stessa … La persona che ha fiducia in se stessa non è ossessionata dalla prospettiva di commettere errori. Se li commette, sa anche ripararli; li considera come altrettante occasioni per imparare quello che bisogna evitare … Questa fiducia è alimentata dalle seguenti convinzioni: ne sono capace; non ho bisogno di misurarmi sugli altri; raffronto piuttosto i miei successi con quelli del passato; accetto il mio livello attuale di competenze, cercando nello stesso tempo di migliorarmi …» (Maubourquette 33-35). continua

Laurent Bacho,SCJ
Estratti dal ritiro alla Fraternità Nè Mè (Adiapoudoumé, 18 dicembre 2010)

 


 

Quaresima 2011

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40 giorni

La quaresima è iniziata da qualche giorno. Come mai nelle nostre conversazioni, si riduce ad un periodo faticoso di sforzi meschini e inulti, di rinunce che uno finge di imporsi con ipocrisia, come una dieta nella quale non si pone nessuna fiducia?

Ecco il tempo della grazia, il tempo favorevole, questo tempo dono di Dio che ci porta a riprenderci la parte migliore di noi stessi. Sembra che solo Dio possa credere veramente possibile la nostra santità, la nostra crescita, la nostra realizzazione, il nostro compimento.

Fare quaresima significa immergersi nell’accoglienza di questo desiderio di Dio. Nel suo genio creativo, Dio ha immesso in noi la capacità di amare, che ci rende simile a Lui. Lui sa come tale capacità può irrigare la nostra esistenza per farvi sbocciare la felicità. Ci aiuta a prendere coscienza che la vita ostruisce questi canali di irrigazione.

Con suo Figlio Gesù, ci propone di entrare in un cammino lungo il quale ci lasceremo tentare dall’ascolto della parte migliore di noi stessi. Dovete riconoscere che questo esige un autentico cambiamento delle nostre abitudini: smettere di correre contro il tempo, di disperdersi ai quattro venti, di credersi indispensabili, di lasciarsi trasportare da tutte le correnti di bisogni che noi stessi ci siamo creati e che ci rendono schiavi … 

DIGIUNARE, non è soltanto un problema della bocca e dello stomaco, (anche se …) ma un problema delle orecchie, dell’agenda o dell’ ipod, della tastiera o di internet, del cellulare e degli SMS, della consumazione o della velocità … 

PREGARE, è creare queste spiagge di silenzio dove si sta così bene a crogiolarsi all’azione benefica del sole della presenza di Dio e mettersi all’ascolto del suo soffio di vita per finire il periodo di apnea .. 

CONDIVIDERE, è fare all’altro, chiunque sia, l’elemosina di diventare mio prossimo. Solidarietà/carità? L’associazione di queste parole non è casuale; sono i due versanti della condivisione: la carità, è l’amore così come ci è messo nel cuore da Dio, e che ci spinge ad amare l’altro. La solidarietà è questo amore espresso in gesti concreti dove onoriamo i legami che ci uniscono ad ogni persona. L’Enciclica del Papa Benedetto XVI, «Caritas in Veritate» è, su questo punto, il punto di riferimento.

Allora, siamo pronti a partire per questo periodo di quaranta giorni? Solo gioia in quel periodo! non affrontiamolo indossando, per pietà, le nostre maschere di tristezza. Al contrario, il Vangelo ci invita a intensificare il profumo e l’eleganza perché la bellezza del cuore non manchi all’appuntamento, perché la Pasqua venga a coronare questo tempo favorevole. BUONA QUARESIMA ad ognuno.

Jacky Moura,SCJ

 


 

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Ah! Questa Regola di Vita!

 

Il poeta ha scritto:

«Un pensiero ben elaborato si esprime chiaramente,

E le parole per esprimerlo fluiscono speditamente»

E ancora:

“Affrettatevi con calma e non vi deprimete,

Venti volte sul telaio il vostro lavoro mettete,

Levigatelo senza sosta, e ancora levigate,

Qualche volta aggiungete, e spesso cancellate» (1)

La si credeva (quasi) eterna!

Abbiamo dovuto rivederla. Alcune bozze sono state prodotte; poi altre …

1° novembre 2008: un testo «ad experimentum»; (quasi) definitivo, nell’attesa, (quasi) tranquilla, del capitolo generale. 

Gennaio 2010: ci siamo fatti una ragione per tenere conto dell’esperienza, la madre delle scienze! Allora: era (quasi) sicuro, il testo del 2010 sarebbe andato fino al capitolo del 2011.

Questo voleva dire dimenticare il poeta! Con saggezza, la “commissione” si è rimessa al telaio … Ancora! (quasi) “venti volte”; per un testo levigato e ri-levigato?

Due anni di sperimentazione e tre capitoli regionali dopo, i religiosi, le comunità, i vicariati, le regioni si sono espressi. Un grande grazie a tutti e ad ognuno!

* Alcuni periodi sono stati resi più agili «Qualche volta aggiungete, e spesso cancellate», missione compiuta! Alcune forme sono state rese … comprensibili, espresse chiaramente!

* Il posto dei vicariati e il ruolo dei vicari regionali sono stati precisati, valorizzati; e fa la sua comparsa “l’economo di vicariato”.

* Otto articoli delle costituzioni e un statuto riguardanti gli «uffici economici»? Bene! un solo statuto!

* Seguendo il Codice di Diritto Canonico attuale, il capitolo «uscita dalla congregazione» diventa «separazione di un membro».

Rimangono due prove:

- il capitolo generale, per votare il testo definitivo (che altri cambieranno!);

- la vita quotidiana per mettere in pratica ciò che sarà stato votato!

Affrettiamoci con calma! senza deprimerci!  Arriveremo! Il nostro Fondatore, San Michele, ce lo insegna: «La Chiesa cattolica, i superiori, le regole ci indicano la strada, come i segnali stradali».

E ancora:

 «Le nostre regole sono ottimi strumenti per aiutare la grazie, strade dritte per arrivare a Dio e metterci sotto la guida dello Spirito Santo; sono per noi come l’ottavo sacramento. Inoltre, sono guide sicure e maestri che ci ricordano i nostri doveri, spesso anche i nostri obblighi di diritto naturale».

(1) Nicolas Boileau, L'Arte Poetica (1674), Canto I 

Beñat Oyhénart,SCJ

Commissione per la revisione della Regola di Vita

 


5 minuti con… Padre Alessandro Paniga

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Da 7 anni e mezzo P. Alessandro Paniga svolge il ministero di cappellano a Solbiate (Como) in una R.S.A. (Residenza Sanitaria Assistita) gestita dai Religiosi dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli). Gli abbiamo rivolto alcune domande. 

Nef : Ritieni che il tuo ministero di cappellano in questa struttura sia in continuità con il tuo ministero precedente di sacerdote religioso di Betharram?

- Nella mia vita ho svolto diversi ministeri: Responsabile dei chierici, Superiore dello Studentato, Professore di Lettere, Animatore vocazionale, Superiore Provinciale, Collaboratore parrocchiale e altro, ma il ministero nei confronti dei malati mentali e degli anziani è sempre stata una vocazione presente e importante nella mia vita, già da quando, giovane sacerdote, ero cappellano presso la Clinica S. Benedetto di Albese, vicino alla nostra residenza di Albavilla. Tanto che continuo tuttora, pur essendo cappellano qui a Solbiate, a interessarmi, due volte alla settimana, dei malati mentali di questa struttura. Quindi il ministero che compio qui a Solbiate per gli anziani e gli ammalati e ad Albese per i malati psichici è in continuità con il mio grande e sempre presente desiderio di dedicarmi a queste categorie di persone.    

Quali sono gli elementi in comune tra la nostra spiritualità e quella dei Fatebenefratelli?

- L’ospitalità verso i malati è il quarto voto dei Fatebenefratelli: è quindi l’elemento centrale del loro carisma come ha voluto il loro Fondatore san Giovanni di Dio. Anche se il nostro specifico non è soltanto l’assistenza dei malati, però siamo chiamati ad essere attenti e disponibili nei confronti dei malati e degli anziani. Il nostro Fondatore è stato molto esplicito nel modo di accogliere gli anziani e i malati cominciando da quelli della nostra Famiglia religiosa: “Non bisogna mai risparmiare niente per curare i malati”.  San Giovanni di Dio raccomandava ai suoi religiosi di accogliere e servire il malato come fratello e prossimo e diceva loro: “Abbiate sempre carità, perché  dove non c’è carità non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo”. Ricordiamo quello che ci ha detto san Michele: “La malattia è un dono, una grazia nei disegni della Provvidenza… Tutto quello che facciamo ad un malato è a Cristo stesso che lo facciamo”.   La nostra Regola di Vita ci dice che “seguire Cristo è impegnarsi a servirlo negli uomini” (n.10) e che “vogliamo condividere le gioie, le tristezze e le angosce degli uomini” (n.18). Questo è il ministero che sto cercando di svolgere in questa casa per anziani e malati.    

Per alcuni anni, hai “fatto comunità” con due confratelli infermi accolti in questa struttura. Come hai vissuto questa esperienza?

- Quando sono venuto qui come cappellano il P. Angelo Pessina era già qui presente da 15 anni. Un incidente stradale l’aveva costretto all’infermità, ma P. Angelo ha sempre vissuto la sua disgrazia con spirito di fede, con coraggio e generosità. Si sentiva molto legato alla nostra Famiglia religiosa pur essendo qui, lontano dalle nostre comunità. Era molto contento quando un confratello veniva a trovarlo. Parlava spesso di san Michele e della nostra spiritualità. Io ne rimanevo meravigliato e confortato. E poi, quando è arrivato anche P. Angelo Petrelli, nel 2005, abbiamo cercato di stare insieme, di pregare insieme, di vivere qui il nostro spirito betharramita. Abbiamo fatto insieme una “piccola comunità betharramita”. Io sono stato molto sostenuto e stimolato nel mio ministero dalle loro parole e dal loro esempio di autentici figli di S. Michele.  P. Angelo Pessina ci ha lasciato il 27 gennaio 2008 e P. Angelo Petrelli il 12 aprile 2009.  Mi mancano molto.

“I malati sono una benedizione per le comunità”. La tua esperienza come ha arricchito il senso di questa affermazione del nostro Fondatore?

- Con la presenza qui dei due nostri confratelli, P. Pessina e P. Petrelli, a cui bisogna aggiungere P. Luigi Gusmeroli e P. Alessandro Del Grande, mi sono convinto ancor di più dell’affermazione del nostro Fondatore: “I malati, lungi dall’essere un ostacolo all’opera di Dio, attirano la benedizione del cielo con le loro sofferenze e le loro preghiere”. Pur sentendo la sofferenza di non abitare nelle nostre comunità, i nostri confratelli infermi non si sono mai sentiti nè lontani nè inutili . Hanno capito che la loro vita era nelle mani di Dio e che erano chiamati a viverla con fede e generosità. Hanno pregato tanto per le vocazioni, per i confratelli, per la nostra Famiglia religiosa. E tutto questo non può che attirare le benedizioni di Dio su tutti noi.  

In quale modo lo spirito di San Michele ti aiuta nel ministero quotidiano con gli anziani, con i loro familiari, con il personale?

- Lo spirito del betharramita io l’ho sempre visto come uno “spirito di famiglia” che fa stare accanto alle persone con quella delicatezza, semplicità e disponibilità che voleva san Michele per sé e per i suoi figli spirituali. Io cerco qui di essere  presente e attento, di ascoltare le persone e di fare del mio meglio per loro. Con i familiari degli Ospiti e con gli Operatori mi impegno a dare una buona testimonianza cristiana nel mio servizio agli anziani. 

In quanto delegato al prossimo  Capitolo Generale quale messaggio vorresti lanciare ai tuoi confratelli che vengono da tutto il mondo? 

- Il messaggio che vorrei rivolgere ai confratelli della nostra Famiglia religiosa sparsa in tanta parte del mondo è quello di volersi più bene e di trattare ogni confratello che incontriamo come un fratello da accogliere e da servire. E quando un confratello è in difficoltà ricordiamo sempre le parole del nostro Fondatore: “Non bisogna mai risparmiare niente per curare i malati. Si deve soprattutto evitare ogni parola, ogni gesto che faccia loro credere di essere di peso”. E non si tratta solo di malattie fisiche ma di ogni malattia morale e spirituale che può angosciare tanti confratelli. Il messaggio forte che vorrei uscisse dal prossimo capitolo generale è che ogni religioso si senta fiero di essere betharramita e che si impegni per far crescere lo spirito di unione e di generosità che il nostro Fondatore voleva per tutti noi, suoi figli spirituali.

 


In memoriam | Thailandia: P. CARLOS ROGRIGUEZ,SCJ

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Pampoliega (Spagna), 27 gennaio 1933 | Chiang Mai (Thailandia), 21 febbraio 2011

 
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Il mattino di lunedì 21 febbraio, con grande tristezza abbiamo saputo della morte di p. Rodriguez, all’ospedale di Chiang Mai, in Thailandia. Da alcuni anni il suo stato di salute si andava aggravando. Nel 2009 l’avevo invitato a rientrare con me in Europa per farsi curare. Avrebbe preferito riposare tra i suoi fedeli nel cimitero di Chiang Mai.
Ordinato sacerdote a Bordeaux nel 1960, aveva celebrato il giubileo sacerdotale l’anno scorso.
Durante il lungo periodo della sua vita trascorsa in Thailandia (50 quest’anno) aveva dedicato 47 anni ai “montanari” Kariani: 27 anni a Méthoko e poi vent’anni a Mépon. Da sole, questi due numeri ci parlano bene del suo carattere: era una roccia immutabile, apparentemente insensibile alle emozioni, era molto stabile!
Nel 1970 Mons. Lacoste mi ha inviato da P. Rodriguez per imparare la lingua e la pastorale presso i Kariani. L’ho conosciuto bene e stimato durante quei due anni, in particolare nelle veglie passate insieme, soprattutto nelle stagioni delle piogge. L’uomo non era chiacchierone, ma dopo un bicchierino di saké il suo cuore si apriva ed io raccoglievo con gioia i suoi innumerevoli consigli: due anni indimenticabili in quel villaggio di montagna. Lontano da tutto, non c’era né strada, né elettricità, né dispensario per i numerosi malati. Carlos era l’uomo tuttofare: meccanico, orologiaio e soprattutto medico per questi poveri, con i poveri.
Ogni mese, andavamo all’incontro dei padri a Chiang Mai; dopo una lunga marcia di varie ore attraverso sentieri di montagna, arrivavamo ad una strada carrozzabile e aspettavamo il passaggio ipotetico di un camion.
Nel suo zaino Padre Carlos aveva sempre degli orologi che i giovani dei villaggi gli affidavano per essere riparati in città. Ma il giorno precedente alla nostra partenza, il Padre non poteva trattenersi dall’aprirli uno dopo l’altro, per smontarli e studiarne il loro meccanismo. Rimontarli era un’altra storia: spesso arrivavano all’orologiaio a pezzi. La stessa sorte toccava al piccolo motore elettrogeno …
Padre Carlos era anche medico e noi approfittavamo della nostra permanenza in città per fare gli approvvigionamenti di medicine: antibiotici, vitamine, anti- parassitari. Nel villaggio era una sfilata continua di malati: ah! Le iniezioni del Padre! Erano le migliori, guarivano istantaneamente e facevano miracoli.
Bravo P. Rodriguez, quanti ricordi. Sei stato un buon missionario dalla pazienza Kariana tra i Kariani.
Non dimenticarti di noi presso il Sacro Cuore e Nostra Signora. Noi non ti dimenticheremo. 
 
Pierre Caset,SCJ 
 

 
 

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3. VERSO IL CARMELO

Sempre ossessionata dal pensiero di suo fratello, Mariam prese posto su una nave verso San Giovanni d’Acri, ma una tempesta la obbligò ad attraccare a Jaffa. Si unì ad alcuni pellegrini che andavano verso Gerusalemme e vi trovò anche un posto di lavoro.

Un giovane misterioso l’avvicinò nella Città Santa, gli fece l’elogio della castità perfetta, la condusse al Santo Sepolcro, l’aiutò a pronunciare il voto di verginità e, prima di lasciarla, le ricordò le tappe della sua esistenza che le aveva predetto la religiosa di Alessandria. Accusata di aver rubato un anello alla sua padrona, fu gettata in prigione ma subito liberata dopo che fu scoperta la vera colpevole. Mariam andò di nuovo a prendere una nave a Jaffa per San Giovanni d’Acri. Ma la tempesta la sospinse fino a Beyrut dove ancora una volta fu assunta a servizio, con nuove prove: ancora un’accusa di furto, subito annullata; una caduta mortale, una cecità straordinaria durata 40 giorni; la sua guarigione inspiegabile; alcune visioni.

Ancora una volta troppo apprezzata per il suo servizio, Mariam cambiò padrone e finì per seguire a Marsiglia una famiglia Melkita, Najjar. Anche là fu molto apprezzata, ma ancora una volta serva dai modo sconcertanti, con le sue estasi, le su malattie, le sue visioni e i suoi desideri di farsi religiosa.

Le Suore di san Giuseppe finirono per accettarla, benché non sapesse né leggere né scrivere, biascicava un po’ di francese, dava del tu a tutti, alla moda araba, come avrebbe fatto per tutta la vita, anche con il Patriarca di Gerusalemme. Serviva in modo perfetto, con estrema dedizione. Ma le sue estasi si moltiplicavano e, nel 1866, apparvero anche le stigmate, sui piedi e sulle mani. Questi fenomeni straordinari la resero un elemento di contraddizione in una comunità di vita attiva. In assenza della superiora generale che la stimava molto, la maggior parte del Consiglio non l’accettò per il noviziato. Desolata per la decisione, la Superiora doveva in seguito dichiarare, il 12 dicembre 1868: «I nostri superiori ecclesiastici hanno ritenuto di non trattenerla con noi dicendo che il chiostro aveva il privilegio di custodire tali anime. Le nostre suore hanno obbedito. Voi avete questa anima eletta. Dio sia benedetto».

Mariam era arrivata al Carmelo di Pau il 15 giugno 1867, con Suor Veronica Leeves (1823-1906), personalità abbastanza straordinaria. Figlia di un pastore anglicano, si era convertita a Malta ed era entrata dalle Suore di San Giuseppe nel 1851. Dopo aver lavorato alcuni anni a Calicut in India, fu destinata a fondare un Terz’Ordine femminile carmelitano e per questo fu inviata a Roma. Non essendo riuscita nell’impresa, nel 1866 rientrò a Marsiglia. Fu per qualche tempo maestra delle novizie e di lì partì con Mariam alla volta del Carmelo di Pau. Avendo dovuto riprendere più tardi il progetto della fondazione del Terz’Ordine, questo divenne una Congregazione di religiose carmelitane indiane.

Ecco il ritratto che Madre Veronica fa di Mariam, sua novizia di 21 anni «A vederla, si direbbe una bambina di 12 anni. La sua piccola statura, la sua anima candida, la sua difficoltà ad esprimersi nella nostra lingua, la sua grande ignoranza di tutte le cose - infatti non sapeva leggere né in arabo né in francese - tutto contribuiva a fare di lei una vera bambina. Per questo non potemmo fare a meno di chiamarla “piccola sorella”. Tuttavia, cosa sorprendente, unisce a questa semplicità la più grande saggezza, molto discernimento e se non ha talenti acquisiti, il suo cuore e il suo spirito sono ricchi di quei doni che rendono le anime grandi».

Pierre Médebielle,SCJ
Jérusalem (1983, pp. 201-239)

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