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Graziano Vietnam 1
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10/02/2011

Notizie in Famiglia - 14 febbraio 2011

Sommario

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La parola del Padre generale

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Tutto mi è stato dato dal Padre mio (Mt 11,27)

Nel Vangelo della ricorrenza di S. Michele Garicoïts, ho trovato questa frase che mi ha fatto riflettere e che costituisce la chiave di lettura della persona di Gesù e del suo messaggio. Poiché tutto gli è stato affidato dal Padre, Gesù si sente piccolo ed è commosso nel vedere l’amore speciale che il Padre riserva ai piccoli. Gesù si sente orgo-glioso di essere il solo a conoscere il Padre; egli possiede il segreto per esser di conforto a coloro che sono stanchi di vivere, invita tutti ad essere semplici miti ed umili, anziché usare la forza per imporre le loro idee o per accumulare ricchezze e prestigio invece di dare valore alle piccole cose.
Gesù è il modello del rapporto che si deve avere con il Padre. Si tratta di un’ininterrotta identificazione e comunione con Lui. Da me, io non posso fare nulla... non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 5,30). La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato (Gv 7,16). Se voi conosceste me, conoscereste anche il Padre mio (Gv 8,19). Non faccio nulla da me stesso, ma tutto ciò che io dico è il Padre che me lo ha insegnato (Gv 8,28). Non sono venuto da me stesso, ma è Lui che mi ha mandato (Gv 8,42). Chi ha visto me, ha visto il Padre... Il Padre che rimane in me, compie le sue opere (Gv 14,9-10).
Per mezzo di questa identificazione col Padre, Gesù non possiede nulla di suo. Il suo volto, la sua parola, la sua missio-ne, la sua volontà, i suoi interessi, idee e progetti, così come le sue opere, sono quelle del Padre. Questo è il fondamento della povertà evangelica: essere consapevoli, così come lo fu Gesù, che nulla di ciò che sono, di ciò che possiedo e di ciò che valgo, mi appartiene. Tutto ciò è un dono dell’amore del Padre.
Nella Bibbia, chiunque incontri il Signore fa una doppia esperienza: l’amore di Dio e la propria fragilità. Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane (Ger 1,6). Io sono un uomo dalle labbra impure… (Is 6,5). Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1Re 19,4). L’anima mia magnifica il Signore … ha guardato l’umiltà della sua serva (Lc 1,46-48).
Anche San Michele ha compiuto questa stessa esperienza, espressa nel motto: Dio tutto, io niente! (DS 74-75). La testimonianza di P. Etchécopar ci aiuta a comprenderlo meglio: il padre Garicoïts credeva che il Dio dei piccoli e dei poveri avesse scelto proprio lui a questo scopo, lui che era il pastore della più umile abitazione del villaggio di Ibarre, lui che era da ritenersi un disastro, un nulla, ed al quale era stato detto: “Va’ a fondare nella mia Chiesa un nuovo Istituto, che abbia la sua ragion d’essere in questi tempi tanto inquieti, che vedono i grandi Ordini dispersi e lo spirito di indipendenza rivoluzionario penetrare dovunque, perfino nel Santuario….Aprirai il cammino con la bandiera del Sacro Cuore e proclamando l’Ecce Venio di mio Figlio. Manifesterai così la gioia di Cristo ed il sostegno della sua Chiesa. San Michele ha creduto a questa voce ed ha impugnato questa ban-diera…. ha intrapreso il cammino come un gigante, fedele fino alla fine della vita. Cari Padri e Fratelli, pensate forse che San Michele sia stato vittima di una pia illusione? No, no, grazie a Dio... gli eventi lo confermano (Lettera Circolare, 10 gennaio 1888).
Il film Uomini di Dio esprime molto bene il senso teologico della vita religiosa. All’inizio del discernimento per stabilire se la comunità, in seguito alla difficile situazione che si è venuta a creare, deve partire o restare, uno dei monaci afferma: “Io rimango, nessuno mi aspetta.” E l’abate, nel dialogo con uno dei religiosi favorevole invece ad andarsene, gli dice: “La scelta del martirio può sembrare una follia, così come sembra una pazzia il farsi monaco… la tua vita, tu l’hai già offerta a Gesù.” Queste sono le vere ragioni della nostra consacrazione, che indicano come Gesù ed il suo Regno siano la sola cosa necessaria, il nostro unico tesoro.
Coscienti della nostra piccolezza e dell’amore con il quale Dio la considera, abbiamo offerto la nostra vita a Gesù. Pur fragili, sappiamo che Dio con la nostra vita può compiere grandi cose, per diffondere il Regno, e sappiamo anche che tutti gli uomini riconoscendo Dio come loro Padre si compor-tano da fratelli. È soltanto attraverso la consapevolezza della nostra piccolezza, la fiducia nell’amore di Dio e l’offerta di noi stessi, che possiamo essere indifferenti nel volere o non volere una cosa, desiderandola solo se Dio la vuole.
E’ soltanto così che possiamo essere disposti a perdere la nostra vita, se Dio lo vorrà, ed a restare fedeli nelle prove affidandoci alla Provvidenza. Solo in questo modo possia-mo dedicarci alla missione, non per noi stessi ma per gli altri, non come un progetto personale ma ecclesiale, non per acquisire prestigio ma per fare del bene. Solo in questo modo siamo poveri, casti e obbedienti, perché Gesù è la nostra sola ricchezza, l’oggetto della nostra fierezza e la garanzia della nostra libertà. Solo così saremo capaci di vivere la comunione, poiché saremo pronti a ricevere dai nostri fratelli quanto serve per diventare migliori e dare il meglio di noi stessi perché il fratello cresca. Solo così agiremo con la convinzione che l’importante non è che tutto si svolga secondo le mie vedute per essere apprezzato, ma che la volontà di Dio sia fatta anche se ciò mi mette in crisi. La conseguenza non è l’amarezza, ma la gioia di gustare l’essenziale: la tenerezza dell’amore di Dio, l’adempimento della sua volontà e la diffusione del suo Regno.

Gaspar Fernandez,SCJ


nef-etchecopar.jpgPadre Augusto Etchecopar scrive...
a P. Jean Magendie (a Buenos Aires), 3 Febbraio 1882

Le ordinazioni sono una benedizione di Dio!! Questi preti sono altri Gesù Cristo donati alla Chiesa e a Bétharram, per la gloria di Dio e la santificazione delle anime; siamo depositari di tesori incalcolabili!!...
Dio vi venga in aiuto e compensi l’esiguità del vostro numero con le gioie del fervore e con la pace promessa agli uomini di buona volontà.
Vorrei scrivere a tutti; agli anziani, che sono come colonne con la loro perseveranza (…); ai giovani, che si rendono degni dei loro predecessori con la loro crescita [come] membri del Sacro Cuore di Gesù .
Da circa due mesi, sono un po’ debole e le varie incombenze  assorbono il resto delle mie forze. Mi limito dunque a dire a voi tutti, con Padre Garicoïts: 1° Abbiate costantemente sotto gli occhi innanzi tutto, Dio e la sua adorabile volontà. 2° E per andare a Dio e come espressione della sua volontà, la nostra regola e le nostre Costituzioni. 3° Andare verso questo obiettivo, con tutta la misura della vostra grazia e dei doveri della vostra posizione; poi rispettando i limiti dell’una e dell’altra con una delicatezza verginale.
Meditate ogni parola! e che la Madonna vi benedica!


Preparazione spirituale al Capitolo generale

Georges de La Tour - Nativité (1645)
  

L’INCARNAZIONE : DIO NELLA DEBOLEZZA UMANA
2. La Kenosi (Fi 2,6-11) : l’umiltà di Dio

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L’Onnipotente ha voluto condividere la nostra debolezza assumendo la condizione umana: questo è il meraviglioso mistero dell’Incarnazione, cuore della nostra spiritualità. Il carisma di Bétharram, “l’Ecce Venio del Cuore di Gesù” è un tesoro straordinario; ci è dato in dono ma lo portia-mo in “vasi d’argilla”.

Ecco il primo di quattro appuntamenti mensili: ci preparano spiritualmente al Capitolo Generale di Betlemme (14-31 maggio) attraverso il ritiro predicato a Adiapodoumé nel dicembre scorso. 

L’abbassamento del Figlio di Dio, il suo annientamento al momento dell’Incarnazione, ci è indicato dal celebre inno ai Filippesi che è la base di ogni meditazione sul comportamento voluto da Dio al momento dell’entrata nel mondo degli uomini da parte di suo Figlio: «non ha considerato un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» o «non ha rivendicato il suo diritto di essere trattato come Dio» «ma si è spogliato (annientato), assumendo la condizione di schiavo».
Il Figlio era uguale al Padre, della stessa condizione divina; aveva il diritto di rivendicare dei privilegi come inviato di Dio, come un ambasciatore ha diritto agli onori dovuti a colui che lo invia; invece di tutto questo, si è sottomesso in tutto alla condizione legata alla sua nascita umana, volendo essere trattato come un servo di Dio che si fa schiavo dei suoi fratelli, assumendo in tutto la loro condizione  per comunicare loro la propria. Fin dal primo istante, Gesù accetta volontariamente una condizione di sottomissione e di abbassamento, di totale rinuncia alla propria volontà e di totale disponibilità alla volontà del Padre. Ha accettato tutto come proveniente dal Padre, compresa la morte su una croce.
Betlemme vuole riconciliarci con questa debolezza e questa fragilità che noi scopriamo in noi e che a volte potrebbe far nascere un senso di ribellione contro questo Creatore che sarebbe stato poco generoso verso di noi. L’incarnazione ci insegna che la grandezza dell’uomo non dipende dalla sua forza e dalla sua potenza ma dalla sua capacità di donare: «Contemplando Gesù a Betlemme, - dice Jean Vanier – riscopriamo un Dio che si abbassa verso di noi. Siamo quindi chiamati a capire che il carattere divino in ognuno di noi non consiste tanto nella nostra capacità di superamento che ci spinge ad elevarci al di sopra degli altri, ma nella facoltà che abbiamo di abbassarci, di servire per amore, di farci poveri con i poveri». Anche Padre Varillon ci propone un cammino di povertà per assomigliare a Dio manifestato a Betlemme: «Potremo entrare in Dio solo quando ci saremo svuotati di ogni possesso. La povertà materiale di Betlemme e Nazareth è il segno di una povertà più profonda. Povertà immensa di Dio, infinita, assoluta, senza la quale non possiamo dire che Dio è amore … Il Dio in cui crediamo è infinitamente umile, detto altrimenti, è spogliato di ogni prestigio. Il prestigio è sempre la cosa non essenziale. C’è in noi un certo bisogno di prestigio, di cose contraffatte, false, che non esistono in Dio. Dio è la pienezza dell’umiltà».
Betlemme ci rivela che il vero volto di Dio si svela nella debolezza e nell’umiltà. Nella sua umiltà, Dio non si impone; accoglie l’altro senza prenderlo né possederlo, ma lasciandolo sempre libero. Il nostro Fondatore, San Michele Garicoïts, ha ben sottolineato questa forza dell’amore di Dio che agisce con umiltà. Nel Manifesto, il suo testo fondamentale, questa forza è presentata come «attrattiva che ci avvince  all’amore divino, modello che ci mostra le regole dell’amore e mezzo per raggiungere l’amore divino». «Eccolo nella culla e sotto i veli eucaristici. È  una rivelazione fatta a tutti, una scuola aperta a tutti quelli che hanno occhi per vedere e orecchie per sentire. Quale scuola! Quale Maestro! Quale forza e quale dolcezza negli insegnamenti della grotta! Quali attrattive irresistibili per guadagnare i peccatori più incalliti!» «… tale è la condotta di Nostro Signore nella sua Incarnazione. In questo toccante mistero, è un’attrattiva per le anime, un modello, un sostegno; ci attira, ci rischiara, cerca di mettere i nostri cuori sotto la legge dell’amore; ma, in definitiva, esorta non impone: ecco di cosa ha bisogno, anime di buona volontà» (D.S.359) continua

Laurent Bacho,SCJ
estratti dal ritiro alla Fraternité Nè Mè (Adiapodoumé. 18 dicembre 2010)


Bétharram

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Il primo Capitolo della Regione san Michele

Dal 13 al 18 gennaio 2011, una trentina di religiosi appartenenti alla Congregazione dei Preti del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram si sono trovati per il Capitolo Regionale. Loro compito è stato quello di analizzare la vita delle comunità sparse nella Regione, alla quale appartengono Francia, Italia, Costa d’Avorio, Terra Santa e del Centrafrica. Cosa avranno avuto da dirsi, tanto da rimanere insieme così tanti giorni? Avranno detto tutto? Di parole ne sono state pronunciate molte e probabilmente altrettante non sono state espresse, ma il Capitolo Regionale per un gruppo di religiosi non serve perché si possa scrivere una cronaca da far conoscere, ma per dare un messaggio: nella vita religiosa non si è mai arrivati, si è sempre con le valigie in mano, pronti, come Maria, come i pastori, come i Magi.
Importanti sono state le relazioni dei superiori dei rispettivi Vicariati; importante è stata la relazione del Superiore regionale.Importante è stata la meditazione proposta da Sr. Marta, Superiora generale delle Figlie della Croce. Prendendo spunto dal brano del Vangelo di Luca 1,26-38, ci ha riportati alle origini, quando Dio si incarna in Gesù per farci comprendere che abbiamo a disposizione una grazia da non sprecare: “Dio ha preso l’iniziativa di venire fino a noi, di salutarci”. Dobbiamo prendere “il tempo di ascoltare, di accogliere, di amare Dio, di lasciarlo fare… Lui ci sorprenderà sempre!”.
È stato, il Capitolo, un momento di ascolto e di dialogo. Un momento straordinario durante il quale è stato sperimentato che, attraverso la parola e le aspettative degli altri, ci sono state trasmesse la parola e la volontà di Dio. E non sempre la Parola di Dio è facile da ascoltare e da mettere in pratica.
I religiosi convenuti a Bétharram sono arrivati con la consapevolezza che l’opinione di ciascuno, nell’ambito di un determinato argomento che richiedeva verifica e riflessione, avrebbe contato molto. Questa convinzione ha permesso di comprendere a fondo il significato del Capitolo: ritrovarsi per vivere un incontro tra fratelli che portavano con loro le esperienze, i richiami, le inquietudini e le attese delle varie comunità locali. I partecipanti, nessuno escluso, si sono sentiti, fin dal primo giorno, corresponsabili per affrontare questioni importanti a riguardo di una rilettura e rinnovamento della vita all’interno delle comunità. L’importanza dell’avvenimento è stata amplificata dal fatto che questo Capitolo Regionale è stato il “primo”, dopo il cambiamento e la trasformazione avvenuta in seno alla Congregazione: non esistono più le Province ma le Regioni, suddivise in Vicariati. Questo ha dato all’Assemblea un’internazionalità che è servita ad aprire gli orizzonti delle varie comunità locali su realtà molto più complesse e grandi. Ma la riuscita di un Capitolo dipende anche, o soprattutto, dalla sollecitudine e dalla partecipazione di tutti al bene dell’intera Congregazione.
I temi presi in esame sono stati: animazione vocazionale e formazione iniziale; vita fraterna, formazione permanente e apertura ai laici; internazionalità e animazione missionaria; organizzazione del governo ed economia; comunicazione e relazione tra le varie realtà. Il dibattito scaturito nell’affrontare i rispettivi temi non è stato accademico, ma si è notato lo sforzo per non interessarsi troppo alla gestione delle strutture e alla loro efficienza, ma più ai religiosi e al loro vissuto quotidiano; da qui sono scaturite le mozioni e le proposte che verranno prese in esame al prossimo Capitolo generale. La tentazione di non risolvere nulla, di non immaginare niente di nuovo e di diverso per i prossimi anni, palesando la delusione che le cose continueranno ad essere come lo sono sempre state, era alle porte. È affiorato anche il pericolo di accettare con rassegnazione che si possa perdere tempo in ruoli provvisori e sempre meno definiti, perché le vocazioni in Europa scarseggiano e le forze vengono a mancare. Ma degli uomini di Dio non possono farsi condizionare dalla paura e dalla sfiducia per il futuro. Il futuro lo si costruisce rendendo testimonianza e pensando, come diceva Fr. Emile, “che il carisma del fondatore non è di proprietà dei sacerdoti o dei fratelli, ma è per tutti e che ognuno di noi è tenuto a viverlo perché altri lo possano scoprire e ne siano conquistati”.
Anche la relazione del Superiore regionale è stata ascoltata e presa in considerazione durante i lavori di gruppo, partendo dalla consapevolezza che “ai singoli religiosi ed alle comunità è chiesto di avere uno sguardo alto che consiste nell’avere una capacità di andare oltre la realtà particolare per coltivare uno sguardo d’insieme”. I capitolari sono coscienti di vivere un particolare momento storico piuttosto complicato. E di fronte alle difficoltà concrete di testimoniare la consacrazione religiosa in una società culturalmente atea e con tanti pregiudizi sulla moralità e coerenza di vita dei consacrati e sacerdoti di oggi, i betharramiti sanno - come dice P. Graziano, Superiore regionale, - che “occorre dare maggior forza alle realtà locali” … “ma occorre che i singoli e le comunità si sentano dentro un percorso comune, … nutrendo una sincera disponibilità a partecipare a progetti comuni”.
Nasce quindi la convinzione che il periodo che stiamo vivendo, potrebbe diventare una provvidenziale occasione per recuperare e riproporre con speranza il nostro ministero sacerdotale e religioso all’interno della Chiesa.
Tutto questo, naturalmente, porta ad esaminare il nostro presente e ci chiede di poter suggerire delle risposte concrete alle domande che scaturiscono. Come assicurare ai confratelli delle comunità un impegno apostolico reale da portare avanti? Come favorire oggi nei nostri ambienti una cultura betharramita in ambito vocazionale, della promozione umana, dell’educazione? Come affrontare le nuove povertà e le emergenze sociali sul proprio territorio? Come assicurare la preparazione e la professionalità dei confratelli in specifici settori dell’apostolato? Come sollecitare e accompagnare la collaborazione tra le diverse comunità che svolgono apostolati similari? Come reimpostare le comunità che manifestano segni di stanchezza e monotonia apostolica? Come definire le responsabilità individuali all’interno di un progetto comunitario condiviso? Come regolarsi nelle problematiche amministrative a qualsiasi livello? Come favorire una più piena partecipazione e corresponsabilità dei laici offrendo loro la possibilità di ricoprire responsabilità di gestione e di direzione nelle attività e opere dove non è più possibile la presenza di religiosi?
Dare una risposta a tutte le domande non è facile, forse non sarà sufficiente nemmeno il Capitolo generale del prossimo mese di maggio a Betlemme … Ma non bisogna lasciar niente di intentato. La storia ce lo insegna attraverso la risposta di Maria all’annuncio dell’angelo. Fiat voluntas Dei. E il nostro padre fondatore, san Michele Garicoïts aveva preparato una risposta che andava bene per tutto: “Eccomi”; e come se non bastasse aggiungeva: “senza indugio, senza riserva, senza rimpianto”. Nella risposta di Maria all’angelo e nella disponibilità di san Michele si trova il modo migliore per dire a Dio che ogni betharramita conosce i propri limiti, ma conosce anche la forza che Dio infonde a chi crede e si affida a Lui. Noi ci lasceremo guidare dagli avvenimenti, dalle persone, da Gesù checi  stato donato da Dio. Ci lasceremo convincere come i pastori si sono lasciati convincere la notte di Natale ad andare ad annunciare. Ci lasceremo convincere come i Magi che per il ritorno scelgono un’altra strada, perché hanno visto e creduto. Ci lasceremo convincere che, per vivere in pieno la nostra vocazione, non abbiamo altra scelta che quella di metterci al servizio di Dio, portando a tutti il suo amore come i betharramiti sanno di poter fare.

Angelo Riva,SCJ


5 minuti con... padre Enrique Gavel

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I primi missionari di Bétharram in America hanno fatto scalo a Montevideo il 3 novembre 1856, e sono sbarcati a Buenos Aires il giorno dopo. Quattro anni dopo, P. Jean-Baptiste Harbustan attraversava il Rio de la Plata nel senso inverso per incaricarsi della cappella detta dei Baschi. Nel 1868 viene fondata la scuola dell’Immacolata Concezione … Questa storia secolare continua. Un Betharramita dell’Uruguay, P. Enrique Gavel, ne è testimone.

Nef: Raccontaci la storia della tua vocazione betharramita...
- Tutto ha inizio con la nonna che accompagna per mano un bambino a fare il chierichetto presso la chiesa “dei Baschi” Immacolata Concezione di Montevideo. A 8 anni si sente chiedere da P. Louis Marcel: “Vuoi farti prete?”. E il bambino risponde un sì, pieno di entusiasmo.
Due anni più tardi, trascorso un anno al Collegio dei Baschi, questo sì prende sempre più corpo nell’apostolicato di Barracas in Argentina e si consolida ulteriormente nello scolasticato di Adrogué. Questa vocazione, ormai matura con i voti perpetui (saranno 50 anni il 1° marzo prossimo), trova il suo coronamento con l’ordinazione sacerdotale ricevuta nella stessa chiesa dei Baschi, alla fine del 1963.

Per molti anni sei stato direttore del Collegio di Montevideo, ed ora sei parroco. Come è stata la tua vita sacerdotale?
- Dall’ordinazione (1963) fino al 2008, ho trascorso la mia vita sacerdotale nei Collegi ( Buenos Aires, Montevideo, Rosario) dove ero insegnante, responsabile della disciplina e della direzione e nello stesso tempo collaboravo con i sacerdoti nella pastorale parrocchiale. Nelle attuali circostanze dell’opera (collegio-parrocchia) mi trovo solo di fronte alla Parrocchia. Un impegno bello, sostenuto dalla grande collaborazione dei laici in tutto quello che non è strettamente dell’ambito sacerdotale.
È un bene, come sacerdote, aver avuto la possibilità di esercitare il ministero parrocchiale. È un’esperienza molto arricchente. Peccato che non si possa contare su altri sacerdoti.

Parlaci del tuo ambiente pastorale e del contesto socio economico.
- La Parrocchia San Miguel Garicoïts (Chiesa Immacolata Concezione) comprende 53 quartieri in pieno centro di Montevideo. Vi abitano circa 6.500 persone. Contesto socio-economico: classe media.
A causa della sua ubicazione, la gente che viene in chiesa è di età adulta e avanzata. Pochi i giovani. 2 messe al giorno con 40 e 25 fedeli. La domenica 2 celebrazioni con 200 persone. Molti i visitatori di passaggio.

Nel 2010 si è celebrato il 140° anniversario della parrocchia e nel 2011 si ricordano i 150 anni di presenza in Uruguay dei “Baschi”. Cosa significa tutto questo per te?
- Aver celebrato i 140 anni dall’inaugurazione della chiesa (1870) (la Parrocchia inizia nel 1931) è stata l’occasione per ricordare (con una pubblicazione) ai collaboratori, ai fedeli in generale e alla comunità diocesana  gli inizi dell’attività betharramita in Uruguay.
E’ difficile non provare una certa amarezza nel pensare che la parrocchia stava per essere lasciata (assemblea 2007); che il numero dei religiosi è ridotto: il sottoscritto e P. Ruiz (80 anni) e Fr Enrique (90 anni) molto ammalati; e che all’orizzonte immediato non si vede nessun aiuto. Tutto questo fa sorgere la domanda: che tipo di festeggiamenti faremo nel 2011?

Da ormai alcuni anni non ci sono vocazioni betharramite in Uruguay. È possibile una pastorale vocazionale?
- La possibilità di una pastorale vocazionale deve focalizzarsi sul Collegio dove non ci sono molti ragazzi (150?), visto che, come detto sopra, la comunità parrocchiale manca di persone giovani.
È evidente che ci vuole un sacerdote giovane che venga a dare questo impulso …

Quale messaggio vuoi lanciare ai tuoi fratelli betharramiti?
Più che un messaggio vorrei esprimere un desiderio. San Michele ci dia un segno chiaro che questa opera in Uruguay, da lui stesso sostenuta, debba continuare.
C’è qualche betharramita pronto a farsi eco di questo desiderio?...


In memoriam | Inghilterra: P. ANTHONY BOX,SCJ

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Oldbury, 10 dicembre 1932 | Olton Solihull, 7 gennaio 2011

Un dei miei primi ricordi di P. Tony Box risale al 1969, subito dopo la sua nomina come parroco sulla Hampshire Coast. Si era dato alla pesca e stava esercitandosi a lanciare la lenza con la sua nuova canna da pesca, sul campo di calcio a Sambourne (casa di formazione da 1961 a 1978) . Con un lancio superò gli 80 metri. Ricordo di aver pensato che doveva proprio essere animato da una grande passione per esercitarsi con una canna da pesca a più di 200 km dal mare.
Tony Box nacque in Oldbury nel Black Country, quella parte dell’Inghilterra dove ebbe inizio la rivoluzione industriale, con le tradizionali miniere di carbone, con la fusione e la lavorazione dei metalli. I genitori, di modeste risorse economiche, erano ferventi cattolici e dopo la seconda guerra mondiale erano molto contenti di vedere il loro figlio unico andare nella piccola Scuola Apostolica del Sacro Cuore a Tembury Wells sotto la guida di P.Alec Biggert, betharramita. Lo zio di Tony, Cyril Hazelwood, betharramita, era stato ordinato a Betlemme poco tempo prima, e suo cugino Cyril Barlow iniziò la sua formazione nel Seminario Diocesano di Birmingham.
Tony frequentò tre case di formazione betharramite che ebbero vita breve, Tenbury Wells, Fritham e Caerdeon prima della sua ordinazione nel 1957 nell’Oratorio di Birmingham con P. Ted Simpson, betharramita. Trovava difficoltà negli studi, per questo P. Jack Waddoups, betharramita, lo incoraggiò e lo sostenne lungo il cammino di formazione in filosofia e teologia. A Caerdeon imparò alcuni mestieri, e questo favorì la sopravvivenza del seminario, sempre a corto di soldi: fu idraulico, falegname e meccanico di motori. Suo padre, di professione parrucchiere, uno dei pochi genitori degli scolastici a possedere un’auto, veniva a far visita ogni tanto e portava regali per la comunità e questo sollevava gli spiriti nel clima freddo e umido del Galles. Gli scolastici sapevano che la loro casa (Caerdeon Hall) era il luogo dove Charles Darwin scrisse parte del libro ‘L’origine delle specie’ e commentavano con umorismo che ne capivano la ragione.
Dopo l’ordinazione rimase un anno a Caerdeon per un diploma che lo abilitasse all’insegnamento di alcune materie e poi trascorse un anno a Bétharram a dare una mano a seguire gli scolari della primaria. Negli anni Sessanta fu insegnante nelle prime classi a Droitwich, e benché sapesse che l’insegnamento non era il suo forte, in retrospettiva riconobbe la ricchezza di questa esperienza.
In seguito, il Vescovo Derek Worlock ci offrì un lavoro pastorale nella Diocesi di Portsmouth nel 1969, Tony vi fu inviato per rispondere alla chiamata, e con P. Philip Isley sì stabilì a St Columba’s Bridgemary, sulla costa. I dieci anni che seguirono furono probabilmente i più creativi della sua vita durante i quali esercitò il ministero pastorale in una parrocchia che comprendeva giovani marinai e scolari ancora adolescenti.
Alcuni suoi amici di quel periodo rimasero in contatto con lui per tutta la vita e uno di loro, che possedeva una barca, lo accompagnava regolarmente a fare delle battute di pesca in mare.
L’immagine di Gesù che chiama i discepoli sulla riva del mare era molto significativa per lui, e nel 1981 durante un pellegrinaggio in Terra Santa, l’esperienza di sedersi in riva al lago di Cafarnao lo commosse fino alle lacrime. Per un certo periodo Tony fu entusiasta del movimento “Ministry to Priests” (un gruppo di aiuto reciproco tra il clero) ma i suoi confratelli notarono una certa irrequietezza in lui. Il suo entusiasmo per un luogo, un progetto o una parrocchia durava alcuni anni, poi però sentiva il bisogno di cambiare. Le destinazioni che seguirono a Fegg Hayes (Stock-on-Trent), la parrocchia di Droitwhich, e Holy Name, Great Barr misero sempre più in luce questa sua inclinazione.
Diverse famiglie gli vollero bene e si presero cura di lui. La famiglia Leigh in particolare si prese cura di lui quando era in parrocchia, e la famiglia Dwyer lo assistette negli anni della malattia. Nonostante la difficoltà incontrata negli studi e la poca propensione all’insegnamento, si rivelò sorprendentemente abile come maestro a livello catechistico.
I parrocchiani di Bridgemary a di Fegg Hayes ricordano con gratitudine il suo modo semplice di insegnare il messaggio del Vangelo e di tradurre in termini semplici anche concetti difficili. Il movimento catechistico del dopo Concilio era veramente decollato nella Diocesi di Portsmouth e Tony si ispirava molto da quelli che allora erano i leaders all’L.S.U.College of Education.
Il Nuovo Millennio vedeva il suo stato di salute in rapido declino, e con qualche timore i suoi superiori accettarono la sua richiesta di ritirarsi dal ministero attivo all’età di 69 anni e di vivere con i suoi ex-parrocchiani vicino al mare in un clima costiero più salubre. Trascorse gli ultimi dieci anni in una relativa tranquillità ma con una salute fisica e mentale in declino. Dopo un attacco avuto nel marzo scorso, si rese conto che né lui né i suoi parrocchiani potevano far fronte alle sue nuove condizioni di salute e la comunità di Olton lo accolse come il Figliol Prodigo. Per circa otto mesi i fratelli della comunità lo asisstettero con grande dedizione a costo anche di qualche rinuncia personale. Fu ricoverato in ospedale all’inizio di dicembre e i dottori diagnosticarono diversi disturbi che mettevano a rischio la sua vita, compresa una seria malattia al cuore. Morì di un attacco di cuore il 9 gennaio: gli erano vicini Fratel Andrew e Fratel Liam. Ora vive in compagnia di Pietro e i discepoli, tutti pescatori.

Austin Hughes,SCJ

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2. IL DRAMMA D'ALESSANDRIA

Nel 1854, lo zio andò a stabilirsi ad Alessandria con la famiglia, e con loro Mariam. Questa, a sette anni, si confessava ogni sabato. Un desiderio ardente di comunicare, la spinse a intrufolarsi tra gli altri bambini: ed ecco la sua prima comunione. Il parroco le permise in seguito di continuare a comunicare, con discrezione.
All’età di 13 anni, suo zio combinò, a sua insaputa, un matrimonio con un altro zio. Quando la zia la mise al corrente della cosa e degli obblighi del matrimonio, ne fu sconvolta. La voce di Abellin tornò a risuonare con forza nel suo cuore. Decisa a donarsi completamente a Gesù, trascorse la vigilia della nozze in preghiera davanti ad un’icona poi, in preda ad una gioia fino ad allora sconosciuta, si tagliò le trecce e le sparse tra i gioielli ricevuti. Fu un dramma, ma nonostante la collera e gli schiaffi, mantenne saldo il suo proposito di verginità e seppe resistere ai rimproveri del parroco, e perfino di un vescovo, amico di famiglia. A partire da questo momento, lo zio la trattò come una piccola schiava e il parroco le rifiutò l’assoluzione; tutti la trattarono con molta freddezza.
In questo stato di abbandono, ossessionata dal desiderio di vedere il fratello e non sapendo scrivere, dettò una lettera per lui e di nascosto andò a trovare un vecchio domestico musulmano, in partenza per Nazareth. Fu ben accolta e raccontò tutte le sue peripezie in casa dello zio. Il musulmano le consiglio allora, per farla finita, di abbandonare quella religione così spietata e di convertirsi all’Islam. Lei reagì allora con una tale veemenza che l’uomo divenne violento e, fuori di sé, la gettò a terra e le tagliò la gola con un colpo di scimitarra. Credendola ormai morta, in un bagno di sangue, la avvolse con un velo e andò a gettarla in una viuzza oscura. Era la notte tra il 7 e l’8 settembre 1858.
In seguito, obbligata dall’obbedienza a raccontare il suo martirio, Mariam disse che una volta morta fu rapita in cielo dove si sentì dire che «il suo libro non era terminato». Si ritrovò in una grotta, ivi trasportata da una donna misteriosa, vestita di azzurro, la quale dopo averle ricucito il collo, le servì una «minestra squisita» e le predisse il suo futuro: non avrebbe più rivisto la sua famiglia, sarebbe andata in Francia, sarebbe stata figlia di San Giuseppe, poi figlia di Santa Teresa, avrebbe vestito l’abito del Carmelo in un monastero, fatto la professione in un altro e morta in un altro ancora, a Betlemme. Dopo un mese, ormai guarita, la donna la condusse in una chiesa dei Francescani. La cicatrice sul collo, solo elemento verificabile di tutta la vicenda, fu chiaramente notato a Marsiglia, Pau e Betlemme. Una cicatrice di 10 cm di lunghezza e uno di larghezza. Il fendente doveva aver raggiunto la trachea, e questo spiega perché la sua voce aveva un suono curiosamente spezzato.
A 13 anni, sola ad Alessandria, Mariam, grazie ad un Padre francescano, ebbe un lavoro come domestica in una famiglia cristiana, che risultò essere sua parente alla lontana, ma dalla quale non si fece riconoscere. Il suo lavoro ben fatto la rese ben presto la beniamina della famiglia. Vedendosi fin troppo ben accolta, si trasferì in un’altra famiglia più povera e si prodigò anche per i meno fortunati.

Pierre Médebielle,SCJ
Jérusalem (1983, pp. 201-239)

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