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14/12/2011

Notizie in Famiglia - 14 dicembre 2011

Sommario

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La parola del Padre generale

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LA MISSIONE DEI RELIGIOSI DEL SACRO CUORE DI GESÙ

Quando noi tutti eravamo presi dal nostro attivismo pastorale, P. Giovanni Craviotti scj, già anziano e di salute cagionevole, passava il tempo traducendo testi di San Michele Garicoïts in un angolo della biblioteca di Adrogué. Ad orari stabiliti, chi gli faceva da autista veniva a prenderlo per portarlo a confessare a Burzaco, oppure per portare la comunione ad un malato o per confessare qualcuno che aveva sempre rinnegato la Chiesa ed ora si trovava in punto di morte. E se la persona si mostrava riottosa, Padre Giovanni rientrava all’asilo e faceva pregare i bambini perché la persona si aprisse alla misericordia del Signore. Un esempio di missionario betharramita.

La missione non è soltanto una questione di parole, ma anche di azioni, di esperienze condivise e di una vita che si lascia trasformare nell’incontro con il Cuore di Gesù, morto e risuscitato. Il documento di Aparecida* dice: Nell’incontro con Cristo vogliamo esprimere la gioia di essere discepoli del Signore e di essere stati inviati tenendo nelle nostre mani il tesoro del Vangelo. Essere cristiano non è un peso bensì un dono: Dio Padre ci ha benedetti in Gesù Cristo suo Figlio, Salvatore del mondo.
La gioia del discepolo non si riduce ad un’egoistica sensazione di benessere, ma esprime la certezza che nasce dalla fede, la pace del cuore e la capacità di annunciare la Buona Novella dell’amore di Dio. Conoscere Gesù è il più grande dono che possa essere elargito. Il fatto d’averlo ricevuto è la cosa più bella che ci sia successa nella vita e renderne partecipi gli altri con la parola è la nostra gioia.(Apar.28 e 29).
Queste parole sono per noi l’eco di quelle che compaiono nel Manifesto di San Michele: I preti di Bétharram hanno avvertito l’esigenza di dedicarsi interamente, per mezzo dei voti, ad imitare Gesù annientato ed ubbidiente, nonché al compito di procurare agli altri la stessa gioia. Si tratta della medesima sintesi discepolo-missionario (ovvero imitazione-compito) e della medesima gioia del discepolo-missionario che si propone di far breccia in coloro che ci vedono vivere. Si tratta infine di un uguale impegno nell’operare.
Il segreto, il fondamento, la ragion d’essere e l’ispirazione della missione risiedono nel fatto che la vita apostolica acquista significato in virtù del dinamismo del nostro amore per Cristo (RdV10). È l’amore appassionato per il Cuore di Gesù, il Verbo incarnato, Figlio di Dio, sacerdote eterno, servitore del Padre celeste, il consacrato, l’inviato, il missionario del Padre. Gesù si riconosce come l’inviato del Padre che a sua volta invia i suoi discepoli.
Come tali siamo vincolati durante la nostra esistenza a vivere un’identità in armonia con Gesù, assomigliandogli in tutto, per rinnovare la sua missione nella Storia e dovunque in terra. La nostra missione è quella di dare continuità all’impulso del Verbo Incarnato, che dice a suo Padre “eccomi” per la salvezza degli uomini. Seguendo il Verbo Incarnato che “il Padre consacrò ed inviò nel mondo”(Gv 10,36) anche noi siamo consacrati ed inviati nel mondo per poter essere, durante l’intera nostra vita di religiosi, il segno e l’annuncio di Gesù Cristo (RdV  13).
La missione di Bétharram consiste nella testimonianza di vita di ciascun religioso e di ciascuna comunità, così come nella preghiera personale o in comunità. Ma consiste anche nella sofferenza e nella preghiera dei nostri malati, nel compimento responsabile dei nostri doveri, nella nostra spiritualità condivisa con i laici, nei compiti apostolici che ci sono propri e nei progetti pastorali in  cui ci troviamo impegnati. Con umiltà e fiducia nella sola forza della parola di Dio che è Cristo vivente, perché è soltanto essa che converte i cuori: non i nostri discorsi o le nostre strategie, quando non provengano dalla nostra unione con Gesù.
Vivendo immerso in questo amore, ciascuno di noi aiuti le persone che incontra a scoprire il nome ed il volto del Dio d’amore, un Dio che è presente e che agisce misteriosamente come un incessante fermento nel cuore di ogni uomo. Esse potranno così riconoscerlo, amarlo ed incontrarlo.  Seguendolo, vivranno nella gioia di essere uomini nuovi (RdV 9,15). Tramite la nostra testimonianza che esprime con chiarezza ciò che noi siamo e mediante l’annuncio della Parola di Dio, che è Gesù, dobbiamo aiutare il prossimo a vivere l’incontro col Dio vivente, che abita nel cuore di ciascuno di noi. “Ti cercavo fuori e tu stavi dentro di me” (S.Agostino).
Dobbiamo essere un “campo volante di preti ausiliari, disponibili a qualsiasi particolare intervento, disposti ad andare dovunque...” e “disposti a correre là dove siamo chiamati”. La missione che ci è stata affidata è responsabilità di tutti noi nella comunità, che potrà così arricchirsi grazie allo scambio delle esperienze missionarie (RdV 16). La missione non è proprietà dei singoli religiosi, ma è stata conferita dalla Chiesa alla Congregazione perché la affidi ad una comunità di suoi religiosi. È per questo che a noi discepoli-missionari viene richiesta una triplice fedeltà: allo Spirito, alla Chiesa e agli uomini (RdV 14). La comunione ecclesiale ci impone anche di collaborare con tutti i membri del Popolo di Dio. Saremo allora “campo volante”, in primo luogo per mezzo della nostra vita nelle comunità ma anche, ed in egual misura, osservando un reale distacco da luoghi e persone. Questo ci renderà  liberi e disponibili per correre ovunque ciò fosse considerato necessario.
Per restare nell’ambito di una fedeltà creativa e del messaggio evangelico del Dio d’amore, in tutte le situazioni e dovunque, dovremo formarci “come uomini disponibili, capaci, disposti a correre alla prima chiamata dei loro superiori”, uomini pronti ad essere docili strumenti nelle mani di Dio per la sua opera di salvezza (RdV 19). Dovremo inoltre usare discernimento a tutti i livelli: comunità, consigli, assemblee di vicariato, capitoli regionali e generali. Si tratta infatti di saper capire in qual misura le scelte, gli orientamenti ed i metodi dei nostri differenti ministeri ci consentono di rimanere fedeli alla missione che la Chiesa ci assegna (RdV 19) senza che questo ci faccia perdere l’agilità che la missione stessa esige.
A questo proposito vorrei fare un esempio che è un vero invito ad un esame di coscienza. Il gruppo della “Congregazione degli Amici…di Gesù, Giuseppe e Maria” che si riuniscono a Roma nella Chiesa dei Miracoli, è costituito in maggioranza da giovani che portano nell’ambiente in cui vivono una testimonianza della loro fede, parlano di Gesù alle persone che incontrano e le rendono coscienti del fermento incessante e discreto che esiste in ciascuno di loro. È vero che Dio ha altri mezzi per ottenere questo risultato. Tuttavia, se non vi è chi abbia il coraggio di offrire la sua testimonianza ad una certa persona, può succedere che in seguito non si ripresenti un’altra possibilità per rivelarle il tesoro che egli porta in se. Inoltre la persona ispirata dalla forza del Vangelo sarà invogliata ad accostarsi a un sacerdote per incontrare la misericordia di quel Dio che l’ama e la perdona. Inoltre si sentirà accolta dalla comunità e sostenuta con la preghiera nella sua scelta di vivere in un modo nuovo, da convertito. Credo che questa sia la nuova evangelizzazione.

Gaspar Fernandez, SCJ

 

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nef-etchecopar.jpg Padre Augusto Etchécopar scrive... 

Ai ragazzi della Scuola Notre-Dame di Bétharram, Betlemme, 19 dicembre 1892

Cari figli!

Il nuovo anno è ormai alle porte; il mio cuore, che è già tutt’uno e batte all’unisono col vostro, nutre sentimenti di un profondo affetto e formula auguri di felicità per voi e i vostri genitori:  ho già deposto questi desideri presso il presepe; li deporrò ancora ai piedi del Dio-Bambino, soprattutto durante le feste di Natale! Voi l’amate; la Santa Vergine continua a formarvi a questo amore; chiederò, per voi, la grazia di crescere in questo amore, a imitazione del suo amore per noi. Oh! Come è grande il suo   amore per noi, in questo presepe buio e stretto! Ci mostra il suo amore soffrendo, tremando, gemendo, piangendo per noi! Offriamogli, con gratitudine, le piccole sofferenze del nostro cuore, il nostro lavoro, la nostra obbedienza, le nostre preghiere e i nostri buoni esempi. E allora lui verrà nei vostri cuori come nella mangiatoia, come nelle braccia di Maria, di Giuseppe, dei Pastori e dei Magi; e con Gesù, come siamo felici! Vi saluto, figli miei! Auguro un felice e santo anno nuovo a voi e ai vostri cari genitori. Vi abbraccio.

 


Testimonianza

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"LUOGHI" DI NASCITA DI GESÙ IERI E OGGI

Non è possibile vivere più di un anno in “Terra Santa”, senza considerare in modo diverso il “salto prodigioso” che il Verbo di Dio ha compiuto incarnandosi su questa Terra.

Ho avuto la fortuna di andare, con alcuni amici, a Taybe, un piccolo villaggio in maggioranza cristiano, a nord di Gerusalemme, vicino a Ramallah. Presso le Suore della Croce di Gerusalemme, si trova un’antichissima casetta tipicamente palestinese, chiamata “Casa delle parabole”. Infatti, vi si possono vedere i locali abitativi e molti oggetti della vita domestica, dei tempi di Gesù. La Religiosa che ci fa da guida, attira la nostra attenzione soprattutto sul fatto che, contrariamente a quanto si creda comunemente circa l’accoglienza riservata a Maria e a Giuseppe a Betlemme, la frase di Luca «non c’era posto per loro nella sala comune» non è da interpretare come un rifiuto di accoglienza. Infatti – ci dice la nostra guida – le tradizioni di accoglienza in Palestina sono tali che non è pensabile rifiutare o relegare “fuori della casa”, una donna sul punto di partorire. La “Casa delle parabole” si presenta come un blocco unico, sopraelevato rispetto al livello dell’entrata, per creare una sorta di deposito, e presso una grande sala che serve da stalla. La sala comune non era allora molto vasta e, soprattutto, non poteva offrire quel minimo di intimità, per un parto. Proprio con un gesto di accoglienza, a Maria e a Giuseppe sono state indicate o la sala attigua che serviva da stalla, o una grotta alla quale era addossata la casa. È proprio “là”, in queste condizioni molto verosimili di abitazione, che il Verbo di Dio ha visto la luce, “colui che non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma al contrario annientò se stesso per divenire simile agli uomini” (fil 2)!
In questo contesto, sono stato tanto più colpito dalla citazione di un teologo del Centro Sèvres, che da all’incarnazione di Gesù un contenuto molto concreto: «Il Verbo di Dio non ha soltanto assunto una natura umana in generale … la sua esistenza si è inscritta radicalmente in uno spazio e in un tempo … in seno ad un determinato popolo, Israele; si è immerso nella tradizione di questo popolo … senza mai estraniarsi dal suo popolo ma restando un Ebreo, “unicamente un ebreo”» (Michel Fédou).
Quindi, nella situazione attuale degli abitanti di questo paese – Territori occupati/Israele – come liberare lo spirito da tutto ciò che si vede e si sente dire sul modo di comportarsi degli Ebrei e degli Arabi oggi, e immaginarsi fin dove Gesù ha voluto incarnarsi?
Che il Verbo fatto carne venga ancora “tra noi” per riconciliare questi popoli, queste tre religioni e tutti gli uomini del mondo..!

Henri Lamasse,  SCJ

 


Testimonianza

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UNA COMUNITÀ SI CHIUDE ...

In queste prossime pagine vengono presentate due esperienze vissute recentemente: la prima è quella della chiusura della presenza betharramita nel sud dell'Italia. La seconda è quella dell'apertura di una nuova comunità e missione nel nord-est dell'India in Hojai.
Le reazioni immediate possono essere contrastanti: di perplessità, senso di bbandono da una parte; di gioia ed entusiasmo dall'altra.
Ma è proprio così? Nel nostro stile betharramita non è forse insita la necessità di cercare di essere utili dove il bisogno è più chiaro ed evidente? E il discernimento delle opere non è forse la capacità che occorre maggiormente sviluppare? Il discernimento dunque è la nostra scelta obbligata. Nella logica del tempo che passa, le aperture e le chiusure delle opere assomigliano molto al battito di un cuore che ama e che cerca, continuamente, di generare e di rigenerare la vita.

Il 30 ottobre scorso, alla presenza di Mons. Cacucci, arcivescovo della diocesi di Bari, di molti preti diocesani e parrocchiani, si è conclusa la presenza betharramita nel Sud Italia.
P. Aldo Nespoli, ex membro della comunità di Mariotto-Bitonto, nonché attuale Vicario regionale per l’Italia, ripercorre quest’esperienza iniziata nel 1988.

Mi è stato chiesto di preparare un articolo sulla nostra esperienza nella Chiesa pugliese e su come siamo arrivati alla chiusura. Mi sembrava facile ed ho accettato, ma ora mi accorgo che la faccenda non è così semplice. Bisogna rinfrescare la memoria e ripercorrere a ritroso questi ultimi 23 anni: un’avventura condivisa fin dall'inizio con i confratelli Natale Re e Graziano Sala. Noi tre siamo infatti arrivati in Puglia nel settembre 1988, chiamati dall’allora arcivescovo di Bari monsignor Mariano Magrassi, che desiderava una testimonianza di vita religiosa e comunitaria nella sua diocesi. L’impatto è stato del tutto nuovo per noi tre “milanesi”, un impatto con una diversa cultura e diverse tradizioni religiose. Inizialmente il nostro ministero pastorale si è svolto nella parrocchia di Mariotto, sede della comunità, cui si aggiungeva l’insegna-mento della religione cattolica nella scuola; in seguito ci fu l’inserimento di padre Graziano nella pastorale giovanile diocesana e padre Natale si assunse l’incarico di vicario-economo nelle parrocchie con sede vacante.
È chiaro che l’impatto con questa nuova realtà ha richiesto un’inversione cosiddetta “a U”, uno stravolgimento del nostro modo di vivere ormai consolidato. A un sacerdote anziano del luogo che mi domandava come ci trovavamo non potevo certo rispondere che tutto andava bene, qualche difficoltà c’era. Ma lui da persona saggia e di esperienza mi rispose che, per capire le persone e il territorio, dovevamo addentrarci nella loro storia ma soprattutto amare e condividere le loro tradizioni e la loro religiosità. Abbiamo così capito che dovevamo spogliarci dell’abito brianzolo per indossare quello locale, inserirci quindi in quella cultura senza però abbandonare completamente la nostra. Penso di non mentire dicendo che così è avvenuto. Questi ventitré anni ne sono la testimonianza.
Pur con qualche difficoltà ma soprattutto con tanta nostalgia di casa, i primi tempi sono stati carichi di entusiasmo e sostenuti anche dalle frequenti visite dei nostri superiori e dei vescovi, accompagnati dai sacerdoti della diocesi. L’inserimento è stato graduale, dinamico e gratificante. I ritmi pastorali erano arricchiti da quelli comunitari: la preghiera mattutina con le suore, l’adorazione e la concelebrazione del venerdì come nostra proposta e iniziativa per la comunità parrocchiale. I sacerdoti diocesani hanno sempre rispettato e condiviso questa scelta, nonostante nei momenti forti dell’anno liturgico la pastorale richiedesse il nostro aiuto. Intanto sono arrivati ad aiutarci prima padre Romualdo Airaghi, poi il novello prete Simone Panzeri in sostituzione di padre Sala nella pastorale giovanile. Col trascorrere degli anni il vescovo ci ha affidato nuovi incarichi, soprattutto si è aggiunta la nuova apertura della parrocchia Santissimo Sacramento alla periferia di Bitonto: una scelta significativa per noi a livello pastorale, ma soprattutto rispondente ai bisogni della Chiesa locale. Purtroppo il frazionamento della comunità religiosa - vuoi per i ritmi che la pastorale comporta, vuoi per la distanza fisica tra le due località di Mariotto e Bitonto - ha portato anche a un indebolimento della vita comune. La comunità (non per cattiva volontà dei suoi membri) non poteva più avere i suoi ritmi caratteristici e, pur conservando alcuni tempi comunitari, sono venuti a mancare i momenti del venerdì e la condivisione delle grandi feste.
Il protrarsi di questa situazione ha fatto sì che maturassimo l’idea di un nuovo assestamento. Così nel 2009 la parrocchia di Mariotto, a seguito dello spostamento del sottoscritto parroco al nuovo incarico di vicario per l'Italia del Sud, si è trovata a non avere più ricambi; ne è seguita una chiusura molto sofferta dai parrocchiani, che si sono visti così privati della presenza di una comunità che – ricambiati - avevano imparato ad amare. Senza essere pessimista, con l'intuizione tipica della saggezza popolare, la gente leggeva in quella partenza un inizio di decadenza, che presagiva scelte analoghe per il futuro. Infatti quest’anno 2011 la stessa sorte è toccata anche alla parrocchia di Bitonto. I Padri che l’hanno eretta, essendo stati chiamati a nuovi incarichi, non possono più essere sostituiti per un motivo semplice: la diminuzione dei religiosi e la carenza di vocazioni non permettono più di mantenere tutte le opere. Nonostante l’insistenza e il dispiacere dichiarato dell'attuale arcivescovo monsignor Francesco Cacucci, che ci pregava di riflettere adeguatamente prima di lasciare una realtà ben avviata, e nonostante l’affetto, la stima e la fraternità dei sacerdoti diocesani, non abbiamo avuto altra possibilità di scelta. Quello che strugge il cuore è che questa situazione fa pensare a un drappello in ritirata: i betarramiti che lasciano il Sud, che solo vent'anni fa era stato visto e presentato come un'apertura significativa per una congregazione fin allora radicata quasi solo nel Nord... A onor del vero, invece, siamo grati a tutti della forte esperienza che abbiamo vissuto nella Chiesa di Bari-Bitonto; la nostra vita ne è stata fortemente segnata e arricchita. Siamo riconoscenti ai vescovi, ai sacerdoti che ci hanno apprezzati e circondati di affetto ed amicizia, ma soprattutto il nostro grazie va alle due comunità parrocchiali che ci hanno saputo accogliere e amare accettando le nostre diversità. Un ultimo grazie lo dobbiamo alla Provvidenza che ci ha guidati in questa avventura meravigliosa in terra di Puglia.

Aldo Nespoli, SCJ

(Articolo tratto dalla rivista del Vicariato d'Italia "Presenza Betharramita", n. 4 - dicembre 2011)

 


Testimonianza

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... UN'ALTRA SE NE APRE

L’invito per assumere la missione di Hojai ci è giunto da Thomas Menamparambil, Arcivescovo uscente di Guwahati, capitale dello Sato dell’Assam, il quale, come tanti vescovi dell’India del nord, è originario del Kerala, nel sud dell’India.

Hojai, in Assam, è una città arida e polverosa, con una popolazione di circa 36.000 abitanti a maggioranza musulmana. Piccole industrie leggere comprendenti una fabbrica di profumi, e l’agricoltura sono le risorse di una popolazione povera ma piena di fiducia in se stessa.
Pur essendo una delle più vecchie missioni della diocesi  di Guwahati, la comunità cristiana in città è piccola a causa della predominanza musulmana.
P. Shaju è stato un pioniere qui due anni fa: visitava i vicini villaggi di Bodos e Garos guidato nella sua missione dalle Religiose del Sacro Cuore. Questa località si trova molto all’interno della “cintura tribale” dell’India settentrionale, dove molte persone del luogo hanno più affinità etniche con le popolazioni del Myanmar, della Cina e della Tailandia che non con le popolazioni Dravidiche e Ariane del sub-continente indiano. Sono queste popolazioni tribali che costituiscono la sempre crescente comunità Cristiana in Assam.
Da ottobre abbiamo costituito una nuova comunità a Hojai, guidata da P. Subesh, il quale, per il momento, è coadiuvato da P. Wilfred. In seguito però la comunità sarà formata da P. Subesh, P. Pascal, P. Vincent e Fr Jose Kumar. Al momento i nostri tre novizi (Justin, Edwin e Vino) si trovano a Hojai per l’inserzione pastorale prevista per il noviziato; inoltre la comunità accoglierà, occasionalmente, i nostri giovani per  la loro esperienza pastorale estiva.
Nello stesso campus si trovano una scuola secondaria di 1000 alunni, due conventi, una scuola professionale per ragazze e ostelli per ragazzi e ragazze. Gli alunni del corso diurno sono soprattutto musulmani provenienti dalla città, mentre gli interni provengono soprattutto da villaggi tribali. Tutti sono molto contenti di frequentare la scuola che ci è stata affidata e che gode di buona reputazione per quanto riguarda gli standard di insegnamento  e il comportamento. (correggere anche l’inglese!!!!)
Al momento dell’arrivo della nostra comunità, c’erano alcune difficoltà nella gestione della casa dei ragazzi; ma grazie al fantastico lavoro di Wilfred, di Subesh e dei tre novizi, che hanno fatto la parte del Buon Pastore, si sono registrati sensibili miglioramenti.
A causa delle difficoltà nel costruire una comunità cristiana in Hojai, i preti diocesani non erano particolarmente interessati a questa missione, ma, fedeli al nostro carisma, l’abbiamo accettata come chiamata da parte di Dio, che non ci lascerà mancare la sua benedizione, purché diamo una fedele testimonianza all’amore del Cuore di Gesù.

Austin Hughes, SCJ

 



5 minuti con ...

Fratel Emile Garat

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Un nuovo viso è venuto ad arricchire il grande mosaico della comunità di Monteporzio (Lazio).
In effetti Fr. Emile Garat ha lasciato le rive del Gave per vivere, all’ombra del pino della Casa Famiglia, un anno sabbatico che, come è stato definito dagli Atti del Capitolo Generale 2011, è “una grazia per un rinnovamento umano e spirituale”.

Nef: Alcuni mesi fa hai chiesto di poter fare un anno sabbatico. Come è nato in te questo desiderio? Fatica? Stanchezza? Bisogno di rinnovarti? Bisogno di un cambiamento?
-Anzitutto, io non ho mai fatto richiesta di un anno sabbatico: è il vicario di Francia e il suo consiglio che me lo hanno proposto. Ho fatto la mia professione 20 anni fa e da allora non mi ero mai preso del tempo per me. Quando mi è stata fatta la proposta, non sentivo il desiderio di vivere questo periodo, ed ho accettato perché i miei confratelli me lo hanno proposto. La proposta fatta dal mio vicario è quella di vivere tre mesi in Italia, un mese di esercizi spirituali ignaziani in gennaio e il resto dell’anno in Centrafrica. Io stesso ho chiesto che mi vengano fatte delle proposte. Forse hanno sentito che avevo bisogno di vivere un cambiamento, un rinnovamento, in seguito alla fatica o alla stanchezza, ma sono loro che hanno avvertito questo bisogno, non io.

Come organizzerai questo anno? Hai desideri, progetti, obiettivi precisi? Cosa ti aspetti?
-  Come ho già detto, mi sono organizzato; desideri, progetti, obiettivi? Niente di particolare, soltanto vivere intensamente l’esperienza di quest’anno. Dedicare tempo alla lettura, alla scoperta di quello che i miei fratelli vivono nella loro missione.  Cerco di vivere questo nella semplicità, restando al mio posto.

Trascorrerai tre mesi nella comunità di Monteporzio che è impegnata da anni in un’opera importante a servizio di persone affette dall’AIDS, una della cause delle grandi povertà umane di oggi. Quali sono le tue attività in questa comunità?
- Vivo in questa comunità già da due mesi. Sono stato ben accolto dai confratelli della comunità, dagli operatori e dai volontari. Qui siamo come una famiglia: si vive anzitutto la fraternità, una vita semplice, ognuno dà il suo apporto. La casa è grande e c’è sempre da fare, ognuno da il suo contributo secondo le sue capacità. Da parte mia, mi sono reso disponibile per un lavoro alla mia portata. Mi occupo di tinteggiatura e questo mi dà la soddisfazione di rendere un servizio per il bene della comunità e dei confratelli.

Da quando sei arrivato, qual è l’aspetto che più ti ha colpito nella vita di questa comunità?
- Quello che più mi ha colpito è stato il vedere come questa missione richieda una vera disponibilità da parte di chi accompagna questi malati nel loro quotidiano. Si vive una vita semplice e felice seguendo una regola di vita comunitaria fondata sul rispetto, la benevolenza, dove ognuno ha il suo posto. La cura e l’ascolto di ciascuno è alla base di tutto. Anche la comunità dei padri si è riservata un suo spazio vitale nella casa, con tempi di preghiera e di condivisione attorno alla mensa, una volta alla settimana.

Bétharram, 7 settembre 1991, 20 anni fa, facevi i tuoi primi voti religiosi. Com’è nata la tua vocazione di religioso betharramita? 20 anni dopo qualcosa è cambiato, ha evoluto?
- La mia vocazione è nata quando avevo circa 11 anni, grazie ad un sacerdote venuto nella parrocchia a parlare della sua missione in Africa. Aveva chiesto se qualcuno di noi era disposto a dare la sua vita al Signore. Ebbene, nel mio cuore qualcosa è “scattato”: perché non io?  A poco a poco questo seme è maturato e sapevo che io non volevo vivere da solo in un presbiterio. Da qui la scelta di mettermi alla ricerca di una congregazione, una famiglia e questa è stata Bétharram, che io conoscevo grazie a mio zio, che è anche mio padrino, Padre Emilio Garat; qui ho trovato una famiglia dove si respira la gioia di vivere e soprattutto la semplicità.

Puoi renderci partecipi di qualche momento significativo, felice o doloroso, qualche episodio che ha segnato questo periodo della tua vita?
- Vorrei evocare due esperienze forti: quella vissuta a Formanoir, a Bordeaux con P. Jean Couret durante il periodo della formazione. Un anno ricco di buoni frutti, in una città con tante etnie e l’esperienza del mondo del lavoro. Una comunità di vita religiosa presente in questa città.
Altre esperienze forti: gli incontri dei giovani religiosi organizzati dalla congregazione soprattutto in Terra Santa. Momenti di incontro, di riflessione di preghiera, e soprattutto di conoscenza reciproca.
A dire il vero, non saprei evocare le difficoltà: forse le chiusure di comunità nel vicariato di Francia a causa dei religiosi che ci hanno preceduto sull’altra riva.

Quali ministeri ti sono stati affidati?
- In particolare il mondo dei giovani attraverso la cappellania dell’Insegna-mento Pubblico, la Gioventù Operaia Cristiana, il Movimento Eucaristico Giovanile, e in parte anche lo scoutismo. Ho vissuto anche l’esperienza dell’animazione di una parrocchia soprattutto attraverso l’accompagnamento dei catecumeni adulti.

Hai vissuto – credo – alcuni anni a Limoges. Cosa pensi della recente chiusura della comunità?
- Non posso dire di essere contento della chiusura, ho vissuto in quella comunità per 14 anni e ne ero contento.  È lì che ho fatto le prime esperienze dopo gli anni della formazione. E devo molto a questa diocesi che mi ha permesso di vivere molti momenti forti. Ma io stesso ho dato la mia disponibilità quattro anni fa alla provincia, perché penso che non dobbiamo restare molti anni nella stessa comunità o diocesi. Siamo chiamati ad essere disponibili anzitutto alla nostra famiglia. 

Sei stato spesso coinvolto nell’accompagnamento di gruppi giovanili. Questo ministero ti attira particolarmente? Se sì, perché? Le testimonianze dei giovani di Madrid (cf nef di ottobre) hanno suscitato in te particolari reazioni?
- Mi sono lasciato coinvolgere là dove sono stato mandato, perché si trattava di rispondere alle proposte dei miei superiori, che hanno fatto il miglior discernimento possibile per me. Ho sempre avuto la gioia di inserirmi facilmente là dove mi trovavo. Il mondo dei giovani è stato spesso il terreno della mia missione. Sono nello stesso tempo ricchi e  sconcertanti  talvolta. La loro ricerca di costruire un’esistenza che poi non sanno gestire in una società che cambia molto velocemente. Paure, dubbi che toccano anche la loro vita spirituale. Una mancanza di riferimenti per molti di loro. Ne sono stato testimone molto spesso. Eppure il nostro fondatore diceva sempre: «prima di tutto amateli come sono». Ed è proprio questo che ho sempre voluto valorizzare nell’accompagnamento. Per quanto concerne le GMG, si tratta di un vero tempo forte per loro, ma il problema è sempre lo stesso: come portare avanti l’accompagnamento da una GMG all’altra?  Il quotidiano corre veloce. Ma io sono più favorevole a piccoli gruppi come Giovani in Cammino, presenti sulla piana di Bétharram con una equipe di adulti che accompagnano secondo la disponibilità di ciascuno. I giovani hanno bisogno di adulti che credono in loro e che sono disponibili a vivere l’ “essere con”.

SIn quanto religioso fratello betharramita, quale testimonianza di vita vuoi trasmettere?
- Essere al proprio posto, restando piccolo, costante e sempre contento. Il fratello ha il suo posto come il religioso sacerdote ha il suo, perché ognuno ha scelto liberamente di vivere come un fratello, attraverso i voti, in una stessa famiglia con le sue gioie e le sue difficoltà. Il mio grande desiderio sarebbe di continuare con più forza a vivere veramente la fraternità, la disponibilità, la semplicità tra noi per testimoniare al mondo che la vita religiosa è una forma di vita che parla ancora oggi ed è in grado di renderci felici nella nostra vocazione. Certo, una vita spesa per Dio e per gli uomini vale la pena di essere vissuta! Avanti sempre!
 

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11. IL MESSAGGIO DI SUOR MARIA DI GESÙ CROCIFISSO 

Ogni santo è portatore di un messaggio di Dio, dal quale è stato conquistato. Anche il messaggio di Sr Maria, pienamente posseduta da Dio, era molto significativo. Padre Brunot rimaneva impressionato dal “fascino che la giovane mistica araba ha esercitato su numerosi intellettuali cattolici, sensibili a questi messaggi” di Dio. Per esempio Barrès, Léon Bloy, Francis Jammes, Julien Green, Jacques Maritain, Massignon … Giustamente, vede in questo il segno che sr Maria aveva un messaggio molto vivo e attuale.
Padre Buzy, nell’edizione dei Pensieri di sr Maria, nel 1922, diceva che «essendo discepola e compatriota del divin maestro, lei parla la stessa lingua ed ha lo stesso accento». Del ricchissimo tesoro di Sr Maria, P. Brunot evidenzia tre aspetti o elementi del messaggio soprannaturale della sua vita e delle sue parole.
Il primo è l’affermazione, fatta con la vita e gli insegnamenti, dell’esistenza del mondo soprannaturale. Questa era la risposta vissuta e proclamata nei confronti di Renan, il quale affermava nel suo Avvenire della scienza «che l’immenso risultato della scienze moderne era l’afferma-zione: il soprannaturale non esiste!” Jules Simon gli faceva eco con parole simili: “se Dio esiste, è solo una specie di satellite che ruota attorno al cosmo, senza nessun influsso». Sr Maria, loro contemporanea, vedeva, da parte sua, tutto il contrario di questo cosmo. Con lei, il soprannaturale è il naturale di Dio nel quale lei sempre viveva, in piena epoca di scientismo. Questo porta p. Brunot a dire che i santi, e in particolare sr Maria, sono i “cosmonauti degli spazi divini” e ne rivelano i misteri. Tutta la sua esistenza, le sue visioni e le sue parole, sono una rivelazione del soprannaturale, che si impone alla storia, alla scienza, alla psicologia e alla psicanalisi di questa era ottusa che è lo scientismo, che oggi, d’altra parte, è meno sicuro dei suoi dogmi razionalisti.
Un secondo elemento del messaggio di sr Maria è quello della trascendenza del Dio amore. Era già il messaggio del terribile profeta Elia del Monte Carmelo, posto di fronte al dilemma: Dio o l’idolo. Ma con l’avvento di Cristo, Dio è amore. Si tratta allora della trascendenza del suo amore infinitamente misericordioso che ci ha mostrato nel Figlio. È questo Dio che sr Maria ha amato con le ferite del suo corpo e della sua anima.
Il terzo messaggio è la presenza viva dello Spirito Santo nella Chiesa. È questo Spirito che la guida verso la sommità del monte Carmelo, Lui che le dona il gusto della contemplazione sensibile e che le fa scoprire e sperimentare la presenza di Dio in ogni creatura, in ogni avvenimento. Tutto diventa allora una lettura gustosa del “divino Sconosciuto”. E sr Maria ne è l’evangelista con le sue parole, le sue preghiere, le sue visioni, la sua devozione allo Spirito Santo, che le dona il senso della sofferenza, accettata per amore e che renderà la morte il passaggio da una santità della speranza ad una santità coronata nella gloria.
Il miracolo dei miracoli è che la mistica “Sr Maria di Gesù Crocifisso, per la quale il soprannaturale era diventato naturale, fu nello stesso tempo la più semplice, la più umile, la più obbediente delle carmelitane converse e che, come i mistici autentici, ha dato inizio a realizzazioni apostoliche che durano ancora oggi”.

Pierre Médebielle, SCJ
Jérusalem (1983, pp. 201-239)

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