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25/05/2009

Notizie in famiglia - 14 giugno 2009

Notizie in famiglia - 14 giugno 2009

Summario

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La parola del Padre Generale

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Lodate il Signore, voi che cercate il suo volto !

Agli inizi della vita consacrata, quando un battezzato esprimeva il desiderio di consacrarsi al Signore, i padri spirituali lo indirizzavano verso un cammino di conoscenza del proprio mondo interiore, al fine di conoscersi veramente, di conoscere anche il vero Dio, manifestato in Gesù Cristo, per configurasi a Lui con la pratica dei valori, delle disposizioni, dei comportamenti propri del Vangelo. Tali applicazioni erano identificati con l’espressione biblica: cercare il volto del Signore.
In generale, oggi, i giovani che si avvicinano a noi col desiderio di condividere la nostra vita, lo fanno con la voglia di svolgere un compito o di dedicarsi ad un ministero. Normalmente vogliono essere preti. Ciò va bene, ma non è sufficiente; per questo ci sono i seminari diocesani. Seguendo le indicazioni e le riflessioni postconciliari, abbiamo scoperto l’originalità del nostro carisma e ci siamo resi conto che, prima di essere dei sacerdoti, siamo dei consacrati, uomini di Dio. Anche alcuni tra noi, entrati per essere sacerdoti, abbiamo fatto esperienza del carisma di S. Michele, ci siamo sentiti a nostro agio, spinti ad adempiere la missione a favore degli altri
In alcuni posti è molto difficile praticare la vita comunitaria e lo stile di vita si identifica piuttosto con il modello diocesano. E’ vero che i primi compagni di San Michele provenivano dalla diocesi di Bayonne e avevano una mentalità diocesana. C’era inoltre una ragione più rilevante: il tipo di formazione, invece d’ispirarsi alla tradizione della vita consacrata, si adeguava spesso a criteri di formazione dei seminari diocesani.
Perciò è importante che i formatori informino subito i giovani delle  nostre case di formazione di essere inseriti in una scuola di spiritualità, approvata dalla Chiesa, come affermava l’anziano P. Mirande, con l’approvazione della Congregazione e la canonizzazione del Fondatore San Michele. Essere discepoli di questa scuola richiede l’impegno nella ricerca del volto di Dio, come ha fatto e come insegna il nostro padre San Michele Garicoits.
Non appena prendiamo sul serio questa ricerca di Dio, subito poniamo l’attenzione su noi stessi: passioni, desideri, motivazioni dei nostri atti, gli uni orientati a rinchiuderci, altri che ci spingono a dar il meglio di noi stessi per Dio e per il prossimo. Questa esperienza ci fa capire che la vita cristiana è un combattimento spirituale, non contro forze esterne, ma contro noi stessi, per acquisire il dominio di sé, frutto dello Spirito Santo (Gal 5, 23) da meritare e da chiedere. 
Solo conoscendo veramente me stesso accettandomi con le mie capacità, fragilità e contraddizioni, e rimanendo disposto a superami, potrò continuare a ricercare il vero volto di Dio, non all’esterno, ma all’interno, nel mio intimo: un Dio amore e misericordia che mi accetta, mi ama e mi invita alla conversione perché vuole la mia vera libertà per poter scegliere la verità, il bene, il bello nella mia vita, e possa disporne e offrirla per il meglio: l’amore di Dio e dei fratelli.
E’ indispensabile fare un lavoro serio di accompagnamento su questo punto, perchè il postulante impari a dare un nome ad ogni fatto della propria vita interiore. In questo modo, progredendo nel percorso spirituale, quando si troverà di fronte al bene apparente, alle illusioni o agli inganni, gli sarà più facile fare delle scelte libere che lo faranno giungere alla pienezza di vita. Lavoro fondamentale del postulandato, che si prolunga nel noviziato finché l’esperienza fondante dell’Amore di Dio diventi prevalente per il fratello.
La ricerca del volto di Dio ci sembra come un cammino interrotto: cercavamo Gesù e ci siamo trovati con noi stessi. Dopo che mi sono accettato e che sono disposto a cambiare con l’aiuto di Gesù – non avevo ancora scoperto chi fossi  in realtà – devo conoscere, amare e seguire Gesù con fervore, perchè lui solo possiede la chiave della mia realizzazione personale. Devo porre tutte le mie energie, le mie passioni, i miei desideri – con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze – per riprodurre in me stesso i sentimenti e le attitudini di Gesù Cristo. Devo desiderare di essere come lui per mezzo di una adesione trasformatrice  nella relazione col Padre, come figlio, nella relazione col prossimo, come fratello, nel rapporto con le creature come padrone e non come schiavo. Come direbbe S. Ignazio, per amare e servire in tutto.
L’incontro con Gesù Cristo, un’esperienza di grazia, non può rimanere alla prima scoperta o alle impressioni del primo momento; bisogna coltivarla e assimilarne i valori attraverso la pratica delle virtù cristiane e betarramite, in particolare: la carità, l’umiltà, la dolcezza e l’ubbidienza. Questa tappa spesso è trascurata dalla catechesi, ma anche dal programma di formazione alla vita religiosa.
Questo percorso o itinerario di discepolato non può essere compiuto da soli.  Abbiamo bisogno d’essere accompagnati da confratelli che l’abbiano effettuato prima di noi e ai quali la Congregazione abbia riconosciuto la competenza per essere guide nella ricerca di Dio. Sono i Maestri di formazione. Prima di noi, hanno lottato contro i propri demoni; prima di noi hanno scoperto e contemplato il volto amorevole di Dio; prima di noi hanno cercato di vivere fedelmente i comandamenti evangelici, seguendo l’esempio di Gesù. Quale responsabilità per la Congregazione: dare l’incarico di questa missione a persone che ne siano capaci con la loro serietà di vita, con la loro vocazione, con il loro comportamento, con la loro testimonianza e con la loro preparazione!

Gaspar Fernandez,SCJ


nef-etchecopar.jpgPadre Augusto Etchécopar scrive... ai Padri e ai Fratelli d'América, 18 giugno 1886

Carissimi Padri e Fratelli in Nostro Signore, è per me una grande consolazione offrire, in questo mese, i vostri cuori al Divin Cuore del nostro buon Maestro. Mi ricordo degli slanci che si sprigionavano dall’anima del venerato fondatore, quando ci ricordava la nostra speciale consacrazione a questo Cuore adorabile, e il nostro solenne impegno ad amarlo, imitarlo, diffondere il suo culto e il regno delle sue virtù. Me lo immagino, in Cielo, intensificare le sue preghiere per ottenere a ciascuno di noi una sempre maggiore fedeltà a questa vocazione così bella, così  rispondente alle esigenze di oggi.
Riflettiamoci, cari Padri e Fratelli … guardiamo spesso il nostro stemma, poi penetriamo nell’intimo dei nostri cuori per scandagliare i sentimenti che danno origine alle nostre parole e alle nostre azioni; e se scopriamo dei tratti di rassomiglianza con il Modello, che Dio ci ha dato e da noi prescelto, rendiamo grazie  a colui dal quale scaturisce ogni dono, il dono  soprattutto dell’unione al cuore e all’amore del nostro Dio. Se, al contrario, vi troviamo il contrasto tra la bandiera e il soldato che la inalbera, preghiamo con insistenza il Divin Capo che ci guida, di darci un cuore nuovo e uno spirito retto, degno di lui e delle nostre promesse.


La compassione e il Sacro Cuore di Gesù

Quando guardiamo un’icona, una statua o un’immagine popolare del Sacro Cuore nelle nostre chiese e nelle nostre case, vediamo un Gesù dall’aria triste che indica il suo cuore trafitto con una mano che mostra le ferite dei chiodi della crocifissione. Qualche volta l’immagine ci presenta il cuore trafitto offerto a noi. In entrambi i casi l’invito dell’icona è quello di meditare sulle sofferenze di Gesù sulla Croce e fare una libera offerta di amore per “ripagarlo” dell’amore che ci ha mostrato. Si tratta di un’immagine legata alle visioni di Santa Margherita Maria Alacoque.
Per san Michele, tuttavia, il significato dell’amore di Dio fatto carne per noi in Gesù è alquanto differente. Michele è stato affascinato dalle parole di Cristo quando è entrato nel mondo. E’ il momento dell’incarnazione, cioè il momento in cui l’amore del Sacro Cuore è versato su di noi: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato; non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto, Ecco, - io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7).
Quando Cristo si è svuotato della diretta esperienza della divinità, è stato un atto che lo ha portato a “prendere il posto di tutte le vittime”. Questo è avvenuto perché è diventato quello che non era prima – una persona umana nella quale era stata riversata la Divinità. Questo versamento deve essere stato il più grande dei sacrifici “Gesù non ha considerato la sua uguaglianza con Dio un tesoro geloso, ma annientò se stesso, assumendo la condizione di servo, e divenendo simile agli uomini.” (Fil 2, 6-7)
E’ questo che san Michele chiama “annientamento”, un parola molto forte che purtroppo ha echi negativi oggi, in un mondo dove “annientamento” è stato associato alla nozione di guerra totale e genocidio. E’ forse meglio parlare di “svuotamento totale” o “completo dono di sé”. Questa assunzione della corporeità (vedi la lettera agli Ebrei) rende l’umanità santa. Lo scambio delle nature, espresso dai primi Padri Greci, come “Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio” (Ireneo, Contro le eresie, 7,9) e come, per esempio, la Scrittura in 2 Pt 1,4 conduce alla nozione di THEOSIS o DIVINIZZAZIONE. In Colossesi 2,9-10 leggiamo: “E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui che è il capo di ogni Principato e ogni Potestà”. Questa kenosis o svuotamento è l’atto più sublime dell’amore che dona se stesso, caratteristica così cara al modo con cui san Michele considera il Sacro Cuore. E’ completamente legata all’INCARNAZIONE.
La vita di Cristo come persona umana su questa terra è stata un’esperienza di sofferenza, se paragonata alla sua esperienza di Divinità. Ha condiviso la nostra condizione umana di debolezza e fragilità – proprio le realtà che ci conducono alla sofferenza. A questo punto, forse, dovremmo richiamare la parola “compassione” – il Latino passus è legato alla sofferenza. In Italiano “compassione” significa “soffrire con”. Mostrare compassione non significa mostrare simpatia, quasi uno fosse una persona potente, verso qualcuno più debole. Significa piuttosto condividere o partecipare alle sofferenze degli altri.
Molti anni fa, un Betharramita saggio mi ha mostrato come metter in pratica questo. Ero studente allora. Un ragazzo di 16 anni era morto sul posto di lavoro fulminato da una scarica elettrica emessa da una macchina per le pulizie dei pavimenti che era difettosa - lavorava part time per procurarsi il suo argent de poche. Era un bel ragazzo, brillante e pieno di talenti che stava per iniziare quella che probabilmente sarebbe stata una carriera accademica piena di successo. E tutto questo è stato spazzato via in un momento. Mi è stato chiesto di accompagnare il sacerdote per una visita urgente alla famiglia colpita da questo lutto. “Cosa facciamo?”, ho chiesto. “Cosa possiamo dire loro?” A quell’epoca ero ancora convinto che era nostro compito sistemare le cose, mettere le cose a posto.
“Nulla”, mi è stato risposto. “Non possiamo fare nulla. Ma dobbiamo essere presenti con loro ed essere completamente onesti. Se qualcuno chiede perché è accaduto, la sola cosa che possiamo dire è che non lo sappiamo”.
Abbiamo passato due ore con quella famiglia. A volte lasciavamo semplicemente che le parole piene di angoscia trovassero in noi orecchie pronte ad ascoltare. A volte non facevamo che stringere la mano della madre o della sorella del ragazzo. La sola cosa da fare era abbandonarsi nelle mani di Dio ed essere là con le persone, sperando di essere di aiuto in qualche modo.
Questo è, in piccolo, la grande cosa che Gesù fece venendo semplicemente in mezzo a noi. L’Incarnazione È il Sacro Cuore ed È l’opera della compassione di Dio per l’umanità. Mentre scrivo queste parole a Betlemme, mi viene in mente che per noi Betharramiti, religiosi e laici, l’icona del Sacro Cuore che dovrebbe ispirarci non è la nota statua di Santa Maria Margherita, ma piuttosto quella del Bambino Gesù che giace indifeso nella mangiatoia a Natale.

Colin Fortune,SCJ


Con Benedetto XVI, pellegrino della pace in un paese dilaniato

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Dopo il Camerun e l’Angola nel mese di marzo, il Papa Benedetto XVI nel mese di maggio ha effettuato una visita in Terra Santa. I novizi africani, con il loro padre maestro, hanno assistito alle celebrazioni in Giudea. La cronaca.

 

12 maggio, Gerusalemme – Il mattino presto prendiamo il bus per Gerusalemme. Contro ogni aspettativa, alla stazione i passeggeri non si arrabbiano. Alcuni minuti più tardi, pensavamo di trovarci ad una giornata di una città fantasma: pochissime automobili private in giro, negozi chiusi, vie deserte, imponente presenza militare. Ci dirigiamo verso il Getsemani, luogo della celebrazione. Un posto di blocco della polizia ci obbliga a cambiare strada. Mentre costeggiamo il muro, un’altra pattuglia armata ci intima di fermarci e di lasciar passare un corteo di auto blindate che procede ad alta velocità verso la città vecchia: la scorta papale si raduna alla moschea di Omar per una visita prima della celebrazione prevista.
Appena tolto il blocco, scendiamo verso il Getsemani; dopo tutta una serie di controlli elettronici, finalmente arriviamo al luogo della celebrazione. La messa inizierà alle 16,30 e noi abbiamo 5 ore di paziente attesa. Sotto un sole cocente, i fedeli rispondono timidamente alla chiamata del giorno, certamente a causa dei controlli attivati. Da una parte e dall’altra della valle, numerose pattuglie armate controllano e seguono ogni piccolo movimento… come si può pregare in mezzo a questi dispositivi?, mi sono chiesto subito…
Nel suo messaggio introduttivo il patriarca latino di Geru-salemme, Mons. Fouad Toual, denuncia con franchezza l’ingiustizia, l’occupazione, ogni forma di violenza nella terra natale di Gesù Cristo. L’intervento è interrotto da applausi scroscianti nell’indifferenza totale delle forze d’ordine e di sicurezza presenti. L’omelia del Papa confer-ma in sostanza, il messaggio del Patriarca: Benedetto XVI lancia un appello alla pace e alla fine delle sofferenze del popolo palestinese. La messa continua il suo svolgimento, alla presenza di questa assemblea modesta ma fervorosa.

13 maggio, Betlemme (luogo di residenza del noviziato) - La pressione è meno forte dal momento che la cele-brazione si svolge sulla piazza della Natività: per arrivarci sono sufficienti solo alcuni minuti di cammino. Tutti gli accessi sono bloccati dalla polizia di Betlemme che procede ai controlli rigorosi, senza lo spiegamento di mezzi dei loro omologhi di Gerusalemme. Bisogna riconoscere la discrezione degli agenti della sicurezza. Ben presto, i fedeli prendono d’assalto la piazza della Natività.
La gioia la si legge sui loro volti. Possiamo ammirare i costumi tradizionali indossati dalle ragazze palestinesi. Qui è il vero appuntamento della festa, e l’atmosfera favorisce il clima di preghiera. Come a Gerusalemme, il Patriarca apre la celebrazione rimanendo sullo stesso tono della vigilia: di fronte a tutti i mali che minano la Terra Santa, egli chiede maggiore giustizia, più pace e maggiore carità, e supplica per la tolleranza tra le religioni. Nella sua omelia, il Papa esprime il suo sostegno per la creazione di uno Stato Palestinese libero. Più tardi lascerà la piazza tra le acclamazioni di una folla in delirio.
Per noi, novizi, questa visita è stata motivo di orgoglio, quello di vivere la nostra appartenenza alla Chiesa universale. La Buona Novella deve essere annunciata a tutti i popoli e la nostra presenza su questa terra giustifica il motivo per cui desideriamo consacrare la nostra vita alla sequela di Gesù Cristo. Che il Signore aiuti le intelligenze a capire, i cuori ad amare, e le volontà ad agire per la giustizia, la pace e lo sviluppo della Terra Santa.

Serge N'Da, novice


Un Indiano in Thailandia

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La Congregazione mi ha permesso di fare un’esperienza in Thailandia, durante la preparazione alla professione perpetua. In questo paese buddista regna una vera armonia tra le religioni. La gente è gentile e accogliente. Ho trascorso le prime tre settimane con i nostri fratelli in formazione a Sampran. Un grazie di cuore ai miei benefattori che mi hanno aiutato a costruire una così bella casa per formare i futuri missionari. Durante il mio soggiorno, mentre impartivo lezioni di inglese e di giardinaggio ai nostri seminaristi, ho sperimentato un forte sentimento di appartenenza allo spirito e alla famiglia di Bétharram.
La maggior parte dei nostri missionari lavora nel nord del paese, nelle vicinanze di Chang Mai. Infatti, avevo un grande desiderio di recarmi lì. Appena arrivato, p. Tidkham mi ha accompagnato alla frontiera della Birmania, a Maetawar, dove lavorano i padri Phairot e Arun. Durante il viaggio, ho pensato spesso alla mia parrocchia d’origine. Come faceva mio nonno nel Tamil Nadu, anch’io accompagnavo i Padri nelle loro uscite. Essi svolgono un lavoro meraviglioso. Ho avuto la fortuna di visitare i luoghi di missione, due dei quali in piena montagna. Gli abitanti della montagna sono persone semplici e aperte, e portano vestiti molto colorati. Ho trascorso un bel momento con i bambini. Al termine della celebrazione, siccome il padre mi aveva invitato a dire qualcosa, ho concluso con “Gesù vi ama”.
Ho celebrato la domenica delle Palme a Huay Tong dove i padri Chayot e Caset sono al servizio delle tribù cariane tra le montagne. La domenica tutto ruota attorno all’Eucaristia. I canti vibravano di lode; i bambini del catechismo hanno aggiunto un tocco di colore alla celebrazione… Di ritorno a Chang Mai, ho assistito alla Messa crismale, poi ho avuto la gioia di incontrare tutti i Padri in comunità. Che gioia sentire la comunione tra i religiosi!
Il giovedì santo, padre Chanchai mi ha condotto al Centro di Maepon per il triduo pasquale. Di nuovo la montagna, ancora le piste. Abbiamo celebrato la Cena del Signore in un villaggio. La gente era felice di vedere una faccia nuova... Il venerdì santo ci siamo spostati in un altro villaggio. Per ben due volte la Jeep si è impantanata a causa delle forti piogge. Finalmente siamo arrivati al villaggio, dove 16 adulti hanno ricevuto il battesimo durante la Messa. All’uscita, sono stati distribuite caramelle e uova di Pasqua. E abbiamo fatto ritorno a Maepon.
In seguito a questo magnifico soggiorno tra i Kariani, mi sono recato a Ban Pong, dove sono stato accolto con grandi sorrisi. La comunità vive la sua missione con gli Akka, attraverso il Centro della Sacra Famiglia per lo sviluppo delle ragazze. Meritevole di ammirazione è Noi che le aiuta con ogni mezzo, senza risparmiarsi, così come lo stesso p. Pensa, l’ultimo padre arrivato dall’Europa, grande missionario, ma anche grande visionario. Con lui ho fatto il mio terzo viaggio missionario. Lo stesso p. Pensa mi diceva che in altri momenti ci sarebbero voluti giorni di cammino per assistere spiritualmente la popolazione. Come non rallegrarsi per la dedizione dei Padri e come non ispirarsi ad essi?
La Chiesa thailandese è giovane e fervente e va avanti per costruire il Regno di Dio, e la nostra famiglia ne è parte integrante. Qui Bétharram lavora duramente per offrire agli altri la stessa felicità. E io ne sono orgoglioso.

John Britto Irudhayam,SCJ

 


5 minuti con... padre Jacky Moura

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Incontro con padre Jacky Moura: da Parigi a Limoges, passando da Corinto, il religioso di 63 anni riflette su un anno diverso dagli altri.

Nef:Hai vissuto un anno sabbatico. Cosa rappresenta per te?
- Ho appena concluso un corso di teologia sulla creazione che mi ha permesso di scoprire l’importanza del settimo giorno in cui Dio ci apre tutta la gratuità di un dono che ci fa e la possibilità di ringraziare diventando creature con e in lui. Un anno sabbatico per me è il momento di riposo per tutte le capacità che sono state attuate in molti modi nel corso di una vita e, se si accetta, come su una terra arata, per lasciar germogliare altre “qualità” non utilizzate nella routine della vita quotidiana. Sentivo confusamente la necessità di non esaurire la ricchezza della mia riserva, soprattutto intellettuale e spirituale, e soddisfare la curiosità di capire meglio questo mondo di post-modernità, e per scoprire il linguaggio appropriato per raccontare la Buona Novella agli uomini e alle donne di oggi.

Perché la tua scelta è caduta sul Centro Sèvres, e quali studi hai compiuto?
- Il
Centro Sèvres raggruppa le facoltà gesuite di Parigi. Mi interessava il contesto ignaziano. La possibilità di integrare un corso di formazione annuale con un programma personalizzato e la guida di un tutore erano perfettamente adatti al mio caso. I corsi che ho seguito erano inizialmente concernenti l’uomo sotto differenti sfaccettature: “Antropologia teologica”, “psicanalisi del soggetto auto creatore”, “cosa fare del sentimento di colpevolezza?”, “scritti di san Paolo”, “i Padri dell’Apologia”, “il crepuscolo dei mistici nel XVII secolo”, “Le Confessioni di sant’Agostino”, ecc. 33 settimane al ritmo di 10 ore di corso alla settimana con un lavoro personale soprattutto in biblioteca. Sono ringiovanito, ritrovando il ritmo della vita dello studente, ed ho sperimentato il nomadismo da una camera all’altra, lunghe ore in treno, l’amicizia sui banchi delle aule dei corsi, le varie conferenze, la possibilità di andare al cinema, o di visitare un museo. Eco come ho scoperto il piacere della lettura, l’entusiasmo della scoperta, se non della riscoperta, la sorpresa di fronte al lavoro del pensiero cristiano nella storia, con i due pilastri, che sono Paolo e Agostino, la meraviglia davanti al fermento dell’intelligenza dell’uomo per rimanere creatore con lo Spirito Santo. Ho anche sentito la gioia di essere intelligente!!! Non credo di possedere un bagaglio eccezionale, ma il desiderio di restituire sempre meglio ciò che mi è stato dato di “aver conosciuto e riconosciuto”.

Grazie ai parrocchiani di Pau, sei partito sui passi di san Paolo. Quali sono le tappe che più ti hanno colpito?
- Un’altra grande opportunità di quest’anno: era il mio sogno, i parrocchiani della Sacra Famiglia l’hanno realizzato! Una crociera: è una meraviglia, ma con insegnamenti non indifferenti, liturgie pasquali e visite appassionanti, è favoloso: e in quest’anno paolino, devo dire che san Paolo è diventato, per me, il compagno geniale che ci dice veramente come lasciarci raggiungere da Cristo. Seguirlo alla lettera, solo in parte (e in tutt’altre condizioni) permette di leggere le Lettere con delle immagini che ti rimangono negli occhi. Sul luogo, mi è cresciuta la passione di andare sulle strade del mondo mediterraneo, per andare a raccontare ciò che Egli scopre del progetto dell’Amore di Dio. Lui, l’uomo delle tre culture: giudea, greca e romana, trova il linguaggio migliore per parlare di Gesù Cristo. E non torna indietro davanti a niente per portare a termine la sua missione. Che uomo!

Quest’anno hai ritrovato la comunità di Limoges dove hai soggiornato dal 1970 al 1981. Come hai vissuto questo “rimpatrio”?
- Rivedere
Limoges dopo 28 anni, e una comunità molto diversa per il nome (5 anziché 15), l’habitat (una casa al posto dell’edificio della Scuola Ozanam) e l’attività (ognuno ha il proprio ministero nella diocesi) è stato molto bello. Qui ho vissuto gli anni dei cambiamenti nella Congregazione, l’ordinazione di un nuovo vescovo, le “Ostensioni”, cerimonie durante le quali ogni comunità ricorda il santo fondatore… ho avuto l’occasione di ritrovare alcuni ex alunni di Ozanam, ma la mia mezza settimana a Parigi non mi permetteva di essere abbastanza presente in loco. Mi è stato dato anche di vedere i frutti del Sinodo diocesano che veniva preparato all’epoca della mia partenza per la Costa d’Avorio: alcune parrocchie riunite e vive, dei sacerdoti invecchiati e alcuni giovani interessati alla missione, ma soprattutto numerosi laici pronti a prendere parte attiva alla missione.
Tu che spesso ti sei impegnato con i laici, come Consigliere generale incaricato dei laici o nelle parrocchie, come vedi la condivisione della missione con loro? - Ecco una domanda che mi sta a cuore, perché mi sembra di interesse capitale per l’oggi e per il domani. Mi sono sentito molto orgoglioso di poter accompagnare, quest’anno, il gruppo della Fraternità “Me voici” di Limoges; è con loro che noi abbiamo iniziato a balbettare gli inizi della Fraternità. Il bisogno di un nuovo soffio si fa sentire per continuare a far vivere questo luogo dove ci si nutre nella condivisione dello spirito di san Michele e di padre Etchécopar. La grande gioia che ho avuto è di vedere come ogni membro della Fraternità assume una parte attiva nella vita della Chiesa di Limoges. Essi fanno veramente affidamento su ciascuno di noi perché possiamo essere, per loro, dei “fratelli”, semplicemente uniti a loro a scoprire giorno per giorno ciò che ci può rendere fedeli alla chiamata del Signore, uomini di preghiera, uomini vulnerabili, ma confidenti, pieni di speranza e di gioia data in dono. Essi sono impegnati con noi, per la chiamata del Cuore di Cristo nella nostra storia. Io sento urgente nella Chiesa oggi, questo nuovo modo di rapportarsi tra sacerdoti e laici, cioè quella che tante comunità nuove assumono come impegno. A noi, famiglia di Bétharram, nello spirito di P. Etchécopar con la sua famiglia, è dato come una cosa naturale. Non dobbiamo aver paura di andare così lontano nell’accoglienza reciproca, l’apertura della nostra preghiera, una fraternità vera.

Una domanda alla quale vorresti rispondere, ma che non ti abbiamo posta…
- Mi preme dire semplicemente, senza nessuna impostura, la gioia che oggi sento di essere stato chiamato dal Signore e di essere qui dove sono. Scopro la nostra famiglia come un luogo di vita apostolica, ricca di tante diversità, affrontate senza cedere alle sue debolezze, ma prese nel suo slancio che riceve giorno dopo giorno dal Cuore di Cristo. Devo ammettere che sono sempre più fiero di parlare della mia famiglia e contento di notare l’interesse che suscita. Non è forse già un primo elemento per chiamare chi vorrebbe venire a condividere questa gioia che noi dobbiamo “procurare” a tutti? “Lo Spirito soffia dove vuole”, e questo non è l’inquietudine del futuro, è una fiducia piena e gioiosa. Ecco ciò che oggi mi guida. Beati…!

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SOLIDARIETÀ 2009 Un ritratto per un progetto (2)

 

nef-090613.jpgYamoussoukro, Istituto Politecnico Nazionale: un complesso, unico in Africa, di grandi scuole e istituti superiori. Le linee futuriste dell’ala sud si stagliano in cielo all’aurora. Padre Sergio lascia la sua abitazione nella città universitaria e raggiunge a grandi passi l’aula in cui deve celebrare. I suoi parrocchiani? Studenti come lui, con qualche anno in meno. Ogni mattina una piccola comunità si riunisce per l’Eucaristia. Niente a che vedere con le assemblee del sabato pomeriggio (tra i 400 e i 500 giovani che riempiono una palestra o un anfiteatro), eccetto l’essenziale: la Presenza che si offre e che rinnova tutto.

Sergio Braga è nato 31 anni fa sulle sponde della laguna, di fronte ad Abidjan. Nel 2007, dopo otto anni di formazione ecclesiale, il giovane religioso si è di nuovo immerso negli studi professionali. Sacerdote da un anno, p. Sergio conosce la tensione degli esami; egli porta, con la sua giovinezza, le speranze, le sofferenze e le sfide della Costa d’Avorio che non riesce ad uscire dalla crisi. Ma, perché si trova lì?

Padre Sergio non è il cappellano dell’INP. Tuttavia, in mezzo a questa gioventù disorientata, egli è testimone di altri valori. Non è lì solo per conseguire un diploma tecnico superiore. Nonostante ciò lavora duramente per rimanere al passo dei tempi e raggiungere le competenze della sua nuova missione: dirigere il centro di formazione in meccanica automobilistica che Bétharram desidera aprire ad Adiapodoumé.

Siamo molto lontani dai grandi collegi e distaccamenti tradizionali, ma, questa iniziativa è stata annoverata nella tradizione pedagogica della Congregazione: rispondere alle necessità del momento, educare i giovani, far emergere la loro dignità. Una formazione seria non è di troppo in un settore dove gli apprendisti sono spesso sfruttati. Senza dimenticare l’apporto finanziario che un’officina simile potrebbe portare alla comunità religiosa. Il progetto è valutato in 140.000 € in tappe successive, nel corso di 4 anni. Inizialmente, p. Sergio e i suoi futuri meccanici sperano in una spinta: la nostra.

Jean-Luc Morin,SCJ

 

POUR VERSER VOS DONS (déductibles des impôts): 
envoyer votre participation à Procure des Missions 64800 Lestelle-Bétharram
CCP 12880 P Toulouse (préciser "projet solidaire")  

Una figura della Chiesa del Marocco

PADRE ALBERT PEYRIGUÈRE (1883-1959)

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Quest’anno ricordiamo il 50° anniversario della morte di Padre Alberto Peyriguère. Certamente un illustre sconosciuto per molti di noi; ma sicuramente un po’ in linea con Bétharram, perché era originario di Trébon, un villaggio vicino a Lourdes, e avendo vissuto in Marocco dal 1926 al 1959 (anno della sua morte). Abitava a El Kbab nell’Atlante Medio; e quando veniva a Casablanca, dagli anni ’40, si fermava a riprendere le forze nella nostra comunità del collegio Charles de Foucauld, dove si trovava con il padre Louis Duboé s.c.j., originario dello stesso villaggio. E poi, la dinamica spirituale voluta da Charles de Foucault, è così lontana dall’ “Eccomi per amore”, che ci ha insegnato San Michele?
Ordinato sacerdote nella diocesi di Bordeaux, leggendo la vita di padre Charles de Foucault, scopre ciò che cercava e vuole tentare di diventare uno dei suoi discepoli. Dopo un ministero in Tunisia e in Algeria, nel 1926 si mette a disposizione del vescovo di Rabat che comprende la sua vocazione. Viene inviato subito a Taroudant per curare gli ammalati di tifo; egli, a sua volta, si ammala, ma supera la malattia ed è a causa di questo che nel 1928 si stabilisce a El Kbab, un villaggio nell’Atlante Medio, a 35 Km da Khneifra. Lì rimarrà fino alla sua morte.
Egli condivide la vita di quelle tribù berbere, improvvisandosi infermiere per curare i molti ammalati che si rivolgono a lui o che egli visita tra gli accampamenti nomadi. Grazie alla generosità di numerosi benefattori egli cura, veste, nutre questa popolazione che vive molto poveramente. E, nello stesso tempo, egli lavora per conoscere meglio la cultura berbera. Difende la popolazione contro l’amministrazione del protettorato per cui viene spesso minacciato di venire esiliato. Ma conserva sempre la sua libertà di parola per difendere i poveri.
Egli non esita a recarsi nelle grandi parrocchie delle città per far riflettere i cristiani sulle loro responsabilità di fronte ai loro fratelli musulmani. La sua parola sconvolge i ben pensanti.
Questa vita di incontri amichevoli, di servizio reso e sostenuto, è vivificato da lunghe notti trascorse in cappella davanti al Santissimo Sacramento. Celebrando spesso da solo l’Eucaristia, trova là la sorgente e il dinamismo della sua attività. Egli progetta la sua solidarietà con questo popolo. Vuole quindi mettere il Cristo al centro di tutto, lasciandolo trasparire attraverso tutta la sua vita e riconoscendolo in ciascun uomo.
Poco dopo l’indipendenza del Marocco (1956), in seguito al regime duro che conduce tra le montagne, si è consumato; quindi viene ricoverato a Casablanca dove muore il 26 aprile. Ma sarà sepolto nel villaggio che aveva amato molto.
Al momento dell’inumazione, un giovane berbero leggerà questa poesia d’addio. «Il marabut non aveva né moglie né figli: tutti i poveri erano la sua famiglia. Egli ha dato da mangiare a chi aveva fame. Ha vestito chi era senza abbigliamento. Ha curato gli ammalati. Ha difeso chi era maltrattato ingiustamente. Ha accolto chi non aveva una casa. I poveri erano la sua famiglia, ogni uomo era suo fratello. Dio sia misericordioso con lui!».
Questa poesia non è stata scritta da un evangelista del tempo di Gesù, ma da un giovane musulmano del XX° secolo!Non è forse estremamente somigliante a ciò che noi siamo invitati a vivere nella nostra vita religiosa betharramita, alla sequela di un certo Gesù?

Mons Vincent Landel,SCJ

In questi momenti non sempre facili per un dialogo islamo-cristiano che è una sfida per il nostro tempo, ascoltiamo ciò che scriveva: “Un vero cristiano che vuole esserlo fino in fondo e un vero musulmano che vuole esserlo fino in fondo, come non potrebbero comprendersi e, allo stesso tempo, camminare mano nella mano? Essi hanno in comune un tesoro morale e spirituale che non possono non sentire in pericolo… bisogna accettare gli altri così come sono perché essi sono tenuti ad accettarci così come siamo. Anche se non hanno le qualità che vorremmo o non le posseggono come piacerebbe a noi, essi ne hanno delle altre. Ci vuole una certa varietà nelle qualità rispettive, come nei difetti”.


 

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1929-2009

BÉTHARRAM IN COSTA D'AVORIO

Sono oramai quasi 50 anni che la nostra Congregazione ha mosso i suoi primi passi in Costa d’Avorio. Il racconto di questa avventura ci accompagna lungo questo anno giubilare. Lo dobbiamo a P. Laurent Bacho, Consigliere generale e formatore ad Abidjan.

6. LA PROBLEMATICA

Il 4 agosto 1977 l’Abbé Jean-Marie Kélétigui viene nominato vescovo di Katiola, in sostituzione di Mons Durrheimer, ultimo vescovo missionario nel paese; l’ordinazione episcopale avviene il 30 ottobre, alla presenza del Presidente della Repubblica, Felix Houphouet Boigny. Il ricevimento si tiene all’ombra degli alberi di mango in seminario. Questo cambiamento richiederà un maggior coinvolgimento di tutti i cristiani all’attività della diocesi. In seminario si registra qualche segno di scoraggiamento; giunti alla classe terminale nel Seminario “Medio” di Yopugon, i nostri ex-alunni non fanno il passo verso il seminario maggiore e proseguono gli studi all’università, attratti dal servizio pubblico che offre dei posti di lavoro interessanti. Nel settembre 1978, il Vescovo invia l’abbé Dahiri a proseguire gli studi; è sostituito da P. Pierre Jacquot, vicario SMA a Ferké. Con lui e con un laico, Denis Coulibaly, professore al Seminario da tre anni, si stabilisce un’eccellente collaborazione.
Con il nuovo vescovo, ecco un nuovo tentativo di diversificare la missione; P. Laurent Bacho è nominato vicario della parrocchia di Katiola, pur conservando un aggancio in seminario; è cappellano dei giovani, della prigione e incaricato di un importante complesso agro-industriale di canne da zucchero dove lavorano un migliaio di operai, la maggior parte dei quali sono immigrati del Burkina Faso. Il nuovo provinciale, P.Gabriel Verley, nell’agosto 1979 viene a cercare P. Ségur a Katiola per l’animazione vocazionale! P.Oyhérart diventa superiore della comunità e direttore del seminario, si occupa anche dell’economato e fa numerose ore di lezione! Il nuovo provinciale viene ad incoraggiare la comunità molto ridotta e a consolare Fratel Jean-Claude, la cui falegnameria è andata distrutta da un incendio dopo Natale. Ben presto ecco un nuovo arrivo nella comunità: P.Arialdo Urbani, ex missionario della Thailandia, sarà vicario nella parrocchia di Katiola.
Nell’agosto 1981, la domanda circa la località di missione della comunità diventa importante; P. Laurent si trasferisce a Pibrac dove la Provincia trasferisce la comunità di formazione dei giovani. Siamo ancora in grado di continuare ad avere la responsabilità del seminario? No, tanto più che è previsto il rientro in diocesi dell’abbé Dahiri, che possiede l’esperienza e la competenza necessarie. Dobbiamo lasciare la diocesi, soprattutto per avvicinarci a Fratel Jean-Claude che si trova da alcuni mesi come economo al Seminario maggiore, 1° ciclo, di Ouagadougou? Abbiamo il diritto di lasciare una diocesi già sguarnita di preti, perché c’è stato qualche problema di comunicazione?
Inizia un vero discernimento; la comunità chiede di restare nella diocesi, il Vescovo vuole affidare alla congregazione l’incarico pastorale delle parrocchie di Boniéré e Dabakala. Si tratta di un settore pastorale un po’ trascurato che non attira molte persone, un posto ideale per Bétharram che riceve la sua missione «di esercitare l’immensità della carità nello svolgimento del suo compito, per quanto limitato possa essere», «la dedizione in opere non volute dagli altri». Bétharram lascia Katiola,questo crocevia diventato molto bello grazie alla festa nazionale del 1979 con acqua corrente, elettricità, televisione, asfalto… per inoltrarsi in piena savana!…

Laurent Bacho,SCJ

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