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Sessione 3
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14/03/2014

Spiritualità

La gioia di Giuseppe

Spiritualità

Nelle prime righe di Redemptoris Custos, Giovanni Paolo II riassume la missione di Giuseppe:

“Chiamato ad essere il custode del redentore, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa (Mt 1,24)... Ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo…"

Con P. José Mirande, entriamo nel mistero della gioia di Giuseppe.

Nella Bibbia due figure di Patriarchi attirano in particolare la mia attenzione: entrambi rispondono al nome di Giuseppe. Per me, si tratta più di un nome che la Provvidenza mi ha attribuito: è una vocazione, una chiamata alla libertà e alla gioia in Dio…

Giuseppe d’Egitto, tradito e venduto dai suoi fratelli, grande immagine del Dio che sceglie i mezzi poveri, fino a essere vittima; non decide nulla nella sua vita: gettato in una cisterna, poi venduto come schiavo; imprigionato, poi promosso a maestro di Palazzo, calunniato e caduto in disgrazia, poi riabilitato per riprendere le sue funzioni, sembra che non abbia nemmeno la possibilità di scegliersi la sposa! Infine proclamato governatore di tutto il paese, sempre uguale a se stesso in tutte le situazioni, è il primo abbozzo del Dio che perdona, un perdono così profondo che sembra dimenticare se stesso. Alla fine salverà suo padre e i suoi fratelli e preparerà il nido dove nascerà il popolo di Dio…

Giuseppe di Nazareth mi ha spesso fatto pensare a ciò che poteva essere la «gioia di Giuseppe». Chiamato a un compito così particolare nel progetto di Dio, che non ha più nemmeno un solo istante per realizzare i suoi progetti personali, deve adattarsi e assimilare le indicazioni della Provvidenza e vivere una vita di completa rinuncia. Lo vedo come il modello perfetto per contestare l’edonismo e l’individualismo dei nostri giorni. Ci ricorda che la gioia nasce sempre in funzione di qualche cosa, e che la gioia del cristiano, e a fortiori del consacrato, è gioia in Dio, nel piano di Dio.

Anche Padre Garicoits ci è presentato come persona ottimista e gioiosa. È presente, tuttavia, una certa evoluzione nella sua percezione della gioia in Dio.

Comincia con l’essere una persona che piace a tutti: bambino, servo, studente, giovane prete… trova la sua gioia nell’essere al servizio di tutti, cercando sempre di dare il meglio di sé. Ben presto, scopre la consacrazione religiosa, e trova la sua realizzazione come membro di comunità, legato, per scelta, a decisioni prese in comunità.

Ma quale sarà stata la gioia di san Michele tra il 1841 e il 1863, cioè a partire dal giorno in cui il vescovo gli comunica la sua volontà di avere un semplice istituto di missionari al servizio della diocesi, bloccando così le giuste aspirazioni di san Michele? Può essersi sentito confortato dalla crescita e dalla qualità della sua comunità, a cui le esigenze un po’ contraddittorie del suo vescovo permettevano, tuttavia, un reale sviluppo. Ma l’ombra di un intervento del vescovo non ha mai cessato di pesare sulla sua opera.

Il discernimento di Michele era corretto: la Chiesa stessa ha ratificato la sua scelta e la sua ricerca di una «più alta perfezione», come lui stesso diceva. D’altro canto, Mons Lacroix non aveva torto di voler assicurare bravi operai al servizio diretto delle parrocchie della diocesi. Una volontà «di Dio», due interpretazioni in competizione, magistero e carisma. Michele obbedirà sempre con assoluto rigore all’interpretazione del vescovo, che ha la grazia di stato per pronunciarsi. Ma non si può negare che esiste anche una grazia di fondatore, comunemente chiamata «carisma», portatrice di un valore davanti a Dio e alla Chiesa. Come si fa dunque a chiamare «gioia» una vita nella quale si rinuncia a una parte importante di quello in cui si crede?

È a questo punto che dobbiamo tornare alla «gioia di Giuseppe», o meglio ancora, a quella di Gesù che sale a Gerusalemme per compiere il suo destino. Le nostre interpretazioni della volontà di Dio sono come le grosse macine di pietra dei vecchi mulini. Sotto l’azione dell’acqua corrente, sono in continuo movimento, in perenne attrito, macinando il grano e producendo la buona farina bianca. La Parola di Dio che sembra provocare un braccio di ferro tra Michele Garicoits e Francesco Lacroix diventa una ricerca comune e sincera da cui nasce la volontà di Dio e il nostro stesso istituto.

A questo punto sorge in Garicoits una vera gioia, un po’ aspra se vogliamo, ma reale, quella del fanciullo che è riuscito a fidarsi completamente di suo Padre … gioia che è farina nuova che, consacrata, diventerà Pane.

Michele rientra da Mirepaix, macinato sia dalla fatica sia dall’ultimo incontro con sua Eccellenza il Vescovo, il quale gli ha lasciato intuire la fine del suo tentativo di fondazione. Muore durante una crisi di «mancanza d’aria» dove la malattia si fonde con l’aspettativa, come la giovane volpe che gioisce in anticipo dell’incontro definitivo con il piccolo principe … Muore dunque nella gioia.

E san Michele mi dice: «Sento il dovere di raccomandarle con tutto il cuore di vivere nella gioia del Signore, e di irradiarla con la sua condotta, nei suoi rapporti con Dio, col prossimo e con se stessa, sull’esempio della divina Madre.» (DS 135-136).

José Mirande, scj

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