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Gustavo Papa 01
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13/09/2014

La Parola del Superiore Generale

Non lasciamoci rubare la comunità! (EG 87-92)

La Parola del Superiore Generale

Mi sembra che Papa Francesco abbia liberato il Concilio Vaticano II. Ma ciò che mi appare più geniale è che Papa Bergoglio abbia liberato il Vangelo eleggendolo a priorità della sua vita e della sua predicazione, esprimendo inoltre il desiderio che tale priorità sia anche quella della Chiesa, mistero di comunione missionaria e di ciascuno di noi. La persona di Gesù, le sue azioni e le sue parole, fonte di liberazione, sono le cose più importanti. Le relazioni di tutte le comunità cristiane hanno il loro fondamento nell’esperienza dell’incontro con Gesù, manifestazione dell’amore del Padre per l’umanità.

Quanto è difficile essere fedeli alla vita comunitaria in seno agli istituti di vita apostolica! Abbiamo rinunciato, grazie a Dio, a quello stile d’osservanza di vita nel quale ci sentivamo trattati come bambini. Tuttavia non siamo riusciti a instaurare quelle relazioni adulte, libere, scelte ed impegnative che sono fondamentali nella nostra esperienza di incontro personale con Gesù Cristo, e che ci consentano di uscire dal nostro individualismo aprendoci all’indispensabile rapporto con Dio Padre e con gli uomini, nostri fratelli. Nelle molteplici attività della missione, ci è facile trovare scuse per evitare di relazionarci con i confratelli. Sappiamo tutti che i veri ostacoli che si frappongono a relazioni profondamente vissute con il nostro prossimo sono le resistenze psicologiche: mostrarci come in realtà siamo, con le nostre forze e le nostre debolezze, i nostri sogni e le nostre paure, e allo stesso modo accettare gli altri così come sono, con le loro qualità e i loro difetti, le loro ricchezze e le loro povertà. Non abbiamo idea di ciò che perdiamo sottraendoci all’influsso adulto degli altri!

Secondo la visione antropologica di Papa Francesco, abbiamo ricevuto la vita non per appropriarcene bensì per offrirla. Questo fondamentale principio evangelico ci insegna che colui che si rinchiude in se stesso si impoverisce e si perde, mentre chi non esita ad aprirsi agli altri si arricchisce, si realizza e si completa (Mc 8, 35 e seg.). La vita di ciascuno di noi non si esaurisce in se stessa ma consiste di rapporti con il nostro prossimo: il continuo discernimento degli influssi positivi degli altri che io accetto o di quelli negativi che respingo. Questa antropologia di apertura esige che noi si sia generosi con i doni che abbiamo ricevuto, offrendoli agli altri che ne hanno bisogno per crescere a loro volta. Esige anche umiltà da parte nostra, perché non siamo perfetti, dobbiamo infatti accettare i doni degli altri per migliorare noi stessi.

L’altro elemento di questa antropologia è l’esperienza dell’incontro. Come prima cosa, la fede come esperienza dell’incontro con la persona di Gesù (EG 7; DCE 1). Ma anche il rischio di trasformare le relazioni con gli altri in altrettanti incontri. Né l’incontro con Gesù né quello con gli altri ci lasceranno tranquilli. Al contrario, l’uno e l’altro ci mobiliteranno per la conversione, imprimeranno alla nostra vita un nuovo orientamento valorizzandoci e rendendoci più autentici. «Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza.» (EG 88).

Voglio pensare che vivere questi valori evangelici sia tanto importante quanto tutte le attività pastorali che noi possiamo sviluppare. Attività che, in virtù di tali valori, acquisterebbero maggiore efficacia. In questo modo tuttavia esigiamo molto da noi stessi spiritualmente, mentre esteriormente queste attività non sempre ci procurano il prestigio e la gratificazione che ricerchiamo, ancorché inconsciamente, in tutto ciò che facciamo. Quanto più efficace sarebbe la nostra missione, se vivessimo questi valori in comunità prima di dedicarci alla vita missionaria! Sarebbe una testimonianza significativa, che indurrebbe taluni a chiedersi perché si sia così e costituirebbe inoltre un attraente ausilio per saziare la sete di chi è alla ricerca di un fondamento solido della vita, dell’autenticità della stessa e del vero amore.

Papa Francesco del resto se ne duole con queste parole: «Perciò mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?» (EG 100).

Quando la vita fraterna in comunità è autentica in termini di verità e di carità, si crea allora un clima propizio per condividere le meraviglie che Dio opera nelle nostre vite, per celebrare le lodi del Signore per la sua bontà e la sua misericordia, per l’aiuto reciproco sia umano sia spirituale, per l’elaborazione, la realizzazione e la rivisitazione della missione. Queste ultime da effettuarsi sotto il profilo non soltanto dell’efficienza delle risorse umane, ma anche dell’efficacia della migliore conoscenza, dell’amore e della sequela di Gesù nelle persone. È così che la comunità si sviluppa, in quantità ma soprattutto in qualità. Con questo stile di vita comunitario acquisiremo un permanente stile di discernimento per “amare in tutto e servire” il nostro Creatore e Signore.

In tali comunità adulte è possibile praticare il discernimento evangelico che Papa Francesco propone come «…lo sguardo del discepolo missionario che “si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo” » (EG 50) per liberarci da apriorismi ideologici, sociologici o psicologici: «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo.» (EG 20).

Gaspar Fernández Pérez, scj
Superiore Generale

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