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13/12/2013

Parola del Superiore Generale

Il bambino del Presepe è il mio Maestro

Parola del Superiore Generale

La celebrazione della Natività ci permette di contemplare il grande mistero dell’Incarnazione, rivelandoci come il Dio d’Amore si sia spogliato di tutte le sue ricchezze per farsi come uno qualunque di noi. San Michele Garicoïts ha profondamente contemplato il «Dio consumato nella carità» così come ce lo mostra la lettera ai Filippesi (Fil 2, 6-8) e ci ha trasmesso la sua meditazione nel Manifesto. Con gioia, Nostro Signor Gesù Cristo si è abbassato fino al fango della nostra carne. E il Verbo si fece carne (Cfr. Gv 1, 14). Ci ha resi non soltanto spirituali, ma anche divini… Ecco quello che si è degnato di fare e quello che siamo diventati in Nostro Signor Gesù Cristo. Anima, quanto vali! Con l’esempio della sua vita e con il suo spirito d’amore ci ha convinti. È così che per amor nostro soffrì il freddo nella mangiatoia, l’umiliazione, i disagi e la ripugnanza. Nulla di meglio per infiammarci, a nostra volta, d’amore per lui e per mostrarci generosi. Tutto posso in colui che mi dà la forza (Fil 4, 13).

Quando la contemplazione è autentica, ne “ricaviamo un profitto” per la nostra vita. E la nostra vita di cristiani e consacrati consiste nell’essere come il nostro Maestro, contemplato nel suo modo di vivere. L’estasiarci davanti all’umiliazione di Gesù nella sua Incarnazione deve suscitare in noi umiltà e fedeltà nelle nostre umiliazioni, a sua immagine: il nostro Maestro, è venuto in mezzo ai suoi che non hanno voluto riceverlo. Alla sua nascita, venne avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia; più tardi, si mise in ginocchio per lavare i piedi ai suoi discepoli. Soffrì le umiliazioni di una passione inumana. È molto difficile arrivare a diventare umili senza passare attraverso l’esperienza dell’umiliazione. Tutti noi pensiamo di essere i migliori, fin quando la vita ci fa mangiare la polvere, mettendo in evidenza la nostra fragilità e facendoci retrocedere all’ultimo posto. Nostro Signor Gesù Cristo ce lo ha detto: si deve prendere l’ultimo posto. Lui l’ha fatto. Se aborriamo noi stessi, troveremo che ci sta veramente bene. Non dobbiamo paragonarci agli altri. Niente paragoni: all’ultimo posto, c’è solo quello; non c’è né da confrontare né da scegliere (DS 175-6).

San Michele Garicoïts insiste sull’annientamento, quando evoca l’umiltà del Verbo Incarnato e quella del discepolo di Cristo. Annientarsi significa essere ridotti a niente, non essere più niente. Il Verbo Incarnato è stato il nulla. Non soltanto nella sua divinità, ma anche nella sua umanità. Di per se stessi, un uomo e una donna non sono nulla. Essere nulla… è un’espressione molto dura quando San Michele parla di giustizia; dobbiamo cercare di comprendere, conoscere, riconoscere, accettare e confessare il nostro nulla e, arrivati a questo punto, gridare: aiuto!

Un uomo e una donna acquistano il loro valore nella relazione con Dio come Padre e con gli altri, come fratelli e sorelle. Questa è la loro verità. Chi si crede unico e superiore agli altri come colui da cui tutto dipende, vive nell’illusione perché credere che tutto ruoti intorno a sé non è verità. Il male consiste nel fatto che, agendo con questa mentalità, senza rendersene conto, si può fare molto danno agli altri, ostacolando una vera crescita delle persone, della solidarietà, della convivenza e dell’unità degli esseri umani. Così lo spiega San Michele Garicoïts: Però cosa vediamo, ahimè troppo spesso, nelle famiglie, nel clero e perfino nelle comunità religiose? La preoccupazione per noi stessi, l’ego, come fine delle cose e delle migliori cose. Come tutto allora si abbassa e si degrada nella sensualità! Tutto cade e si svilisce, la filosofia, la teologia, i caratteri ed i ministeri più nobili. Non si vede che se stessi, non si pensa che a se stessi e da lì tutte quelle preoccupazioni terrene in cui si smarrisce la gente del mondo. Che perdita di tempo, che mostruosità e anche che scandalo! Mettiamo l’uomo al posto di Dio; diventiamo materialisti, ci umanizziamo invece di divinizzarci, invece di essere gli uni per gli altri le immagini di Nostro Signor Gesù Cristo, che rapporta tutto al Padre, affinché guardandoci gli uni gli altri, scopriamo Dio per glorificarlo (DS 83 – Ms 145)

Il discepolo deve essere umile come il suo Maestro Gesù. Un Maestro che ha insegnato l’umiltà del chicco di frumento caduto in terra, del lievito, del tesoro e della perla, dell’ultimo posto e degli umili che saranno esaltati. Solo l’umiltà ci rende capaci di diventare servi degli altri, ci rende attenti verso le loro necessità e ci spinge ad uscire da noi stessi per impegnarci ad aiutarli. Aiutarli a cercare e ottenere il bene di cui hanno bisogno.

Così San Michele descrive l’umile discepolo di Gesù: Chiunque resta affascinato nel vedere un uomo che non si mette in mostra, che si fa vedere soltanto quando non può evitarlo e lo fa a malincuore, un uomo molto discreto e riservato, pieno di carità e paziente, che evita di occuparsi di cose che non lo riguardano. Al contrario, uno spirito ansioso di intromettersi senza esserne stato richiesto, senza la grazia di stato nonché privo di riflessione, pronto a controllare e criticare tutto, calpestando non dico le norme della mansuetudine e della carità cristiana, ma anche le più elementari regole di semplice educazione, sarà d’impedimento ad intraprendere le più grandi opere e farà crollare le fondazioni più importanti (DS 188).

Davanti al Dio annientato nella mangiatoia, chiediamo il dono di essere umili pregando con il breve Salmo 131:

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze.
Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
Speri Israele nel Signore,
ora e sempre.

Gaspar Fernández Pérez, scj

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