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24/11/2009

Notizia in Famiglia - 14 marzo 2010

Sommario

 

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La parola del Padre generale

Orvinio, 2006

Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito
(Atti 4,20)

La situazione di crisi che viviamo nella vita consacrata ci impone di essere essenziali, perché non possiamo certo vantarci di cose superficiali. Come in ogni prova, questa crisi ci purifica e ci rende più autentici. Ciò che è veramente unico ed essenziale, è l’esperienza spirituale del carisma che san Michele Garicoits ci ha lasciato. E’ su questo che insistiamo da tanto tempo e in questo senso operano i nostri formatori.
Questa esperienza infonde gioia alla nostra vita ed ardore alla nostra missione, come avvenne per gli Apostoli : “non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e sentito” (At. 4,20). In realtà l’esperienza dell’amore di Dio non deve essere gelosamente conservata nel proprio intimo. Deve essere al contrario testimoniata dalle nostre azioni, deve essere narrata, raccontata, proclamata con le nostre parole. Così facendo aiutiamo i fratelli ad essere fedeli. Edifichiamo la comunità e la Chiesa, permettiamo ad altri di conoscere Gesù Cristo e di vivere questa “medesima gioia”, li aiutiamo a dare una nuova direzione alla loro vita e a far parte del gruppo dei testimoni, dei discepoli e dei missionari del Signore.
Un’attenta lettura della Bibbia offre numerose testimonianze che narrano l’incontro con il Signore che ci tras-forma : sia i salmi che raccontano e proclamano gli interventi del Signore, sia i racconti di vocazione, le confessioni di Geremia, l’esposizione delle apparizioni del Risorto, le predicazioni cherigmatiche di san Pietro, le confessioni dove Gesù racconta la propria relazione filiale col Padre e la sua condizione di inviato, nel Vangelo di san Giovanni.
Il rapporto con Gesù è quello che i religiosi di una comunità, come noi, hanno in comune. E’ la persona di Gesù che realizza l’unità delle nostre comunità. Ciascuno di noi vive unito a Lui con il Battesimo e la professione religiosa. E’ il legame che ci unisce tra noi e col Padre in una esperienza di comunione, esperienza che celebriamo in ogni Eucarestia. Ciascuno di noi la vive in modo diverso e tale diversità può arricchire il modo originale di vivere la fede, la consacrazione, la comunità e la missione. E’ pertanto fondamentale, per la vitalità delle nostre comunità, essere capaci di condividere tra noi il modo con cui ognuno vive la propria relazione con la persona di Gesù.
Soltanto la comunicazione di questa esperienza costruisce la comunione fraterna. Si tratta di condividere la maniera di vivere personalmente la nostra comunione con Gesù in rapporto ai fatti della vita, illuminati dalla parola di Dio. Si tratta inoltre di condividere l’azione salvifica di Gesù negli eventi che viviamo e presso le persone che accompagniamo nella missione. Grazie alla nostra vocazione ed al nostro ministero, siamo i testimoni privilegiati di questo fermento incessante che lo spirito opera nel cuore delle persone, perché noi viviamo al centro del mistero dell’Incarnazione.
Quando la comunità è capace di raggiungere tale stadio di comunione, la vita dei propri membri ne esce trasfigurata; la preghiera diviene viva, le celebrazioni comunitarie proclamano le meraviglie del Signore e tutti intercedono per i bisogni che ciascuno espone nella preghiera comunitaria; la consacrazione è una testimonianza di maturità, di equilibrio e di gioia; l’unione fraterna è una gioia alla quale ciascuno aspira nel profondo dell’anima. La missione diventa appassionata, la predicazione piena di vita. Poco importa che si trascorrano lunghi periodi lontano dalla casa della comunità per le esigenze della missione, poiché ci si sente inviati dai fratelli. Nei periodi di lontananza, quando prego mi sento unito ai confratelli, che pure pregano per me. E quando torno in comunità, ho tanti segni dell’opera misericordiosa del Signore da condividere con loro!
In mancanza di ciò, la vita comunitaria si riduce a mangiare insieme e a dormire sotto lo stesso tetto. Il ruolo del superiore si riduce a recitare le preghiere prima dei pasti, la preghiera diventa una monotona recita di salmi o di preghiere devozionali. E se un fratello si assenta, nessuno si preoccupa di sapere dove si trova. Si ha vergogna di parlare di spiritualità, la vita spirituale è trattata in modo razionale o superficiale. La persona consacrata non si impegna nella propria predicazione, ma si limita ad una es-posizione dottrinale. L’attività pastorale si riduce ad una fonte di reddito : se non dovesse essere redditizia, non vi sarebbe nessuna ragione di praticarla.
La narratio fidei impegna le persone, è contagiosa ed affascina. Nel dare all’altro il diritto di esprimersi, avviene un cambiamento reciproco. E’ un’esperienza impegnativa, che richiede un’adesione totale. Ognuno ha qualcosa da dire e da offrire. L’oggetto del raccontare e dell’ascoltare rappresentano i legami che ci uniscono. Senza comunicazione spirituale la comunità non poggia su basi solide. Certamente si capisce che ci siano resistenze quando si tratta di manifestare la propria relazione con Colui che è la nostra vita, e che tali resistenze si manifestino attraverso silenzi, argomentazioni intellettuali o facili battute. Ma questa relazione ci impegna, tanto che noi non potremo più agire individualisticamente.
Questa comunicazione dell’esperienza di fede, è sempre stata fondamentale nella vita della Chiesa. Basta pensare alla predicazione del kerigma agli inizi, alla pratica della collatio, alla vita monastica, alle autobiografie dei santi, alle confessioni di sant’Agostino, alla vita di santa Teresa, ai dialoghi spirituali di san Benedetto e sua sorella santa Scolastica, di santa Teresa e san Giovanni della Croce, ai racconti di conversione di alcuni nostri contemporanei, all’importanza delle testimonianze in occasione degli incontri di preghiera dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità. Quanto bene hanno fatto alla nostra vita spirituale! La fede cammina attraverso l’udito.
Quando lo scorso anno abbiamo dato inizio al processo di regionalizzazione, ci è sembrato che tale processo non potesse ridursi a un semplice atto amministrativo. Bisognava che ad esso si accompagnasse presso ogni religioso ed ogni comunità ad un processo interiore che ci aiutasse ad essere più fedeli alla vocazione ed alla missione. Abbiamo pensato alla narratio fidei. Nel corso del Consiglio di Congregazione abbiamo chiesto la collaborazione di due sacerdoti di Padova che avevano sperimentato quanto questo approccio avesse trasformato la vita dei sacerdoti della loro Diocesi. Durante l’incontro dei Superiori a Betlemme in aprile abbiamo nuovamente lavorato in questa direzione. Utilizzata durante i ritiri di certi vicariati, la narratio fidei è diventata esercizio abituale nelle riunioni di varie comunità e in occasione dei Consigli di Congregazione, dei consigli regionali e di vicariato. Ci ha aiutati ad essere più fedeli.

Gaspar Fernandez,SCJ


nef-etchecopar.jpgPadre Augusto Etchécopar scrive...
agli Scolastici di San José,18 marzo 1886

Continuate a progredire con l’aiuto del Signore. Non lasciatevi mai scoraggiare dai vostri limiti; approfittatene per farvi più saggi, più prudenti, più attaccati alla preghiera, alla regola, ad un’obbedienza filiale… La preghiera: santifica le nostre azioni; la regola, l’obbedienza: mette a nudo e sventa le macchinazioni di Satana; senza preghiera, la vita è solo umana; senza la regola, si cade preda delle passioni. Ma, santificato dalla preghiera, regolato dall’obbedienza, il vostro lavoro sarà un fecondo apostolato. Apostoli del Cuore Divino, dobbiamo essere la luce del mondo attraverso la scienza e sale della terra attraverso la pietà. Che san Giuseppe vi renda tali; che la Madonna vi benedica.


Quaresima betharramita

Vallons de l'Arriucourt | Lestelle-Bétharram

È possibile parlare di “Quaresima betharramita”? Nel senso di una “accentuazione” specifica, di una visione “originale”, secondo la nostra spiritualità, di questo tradizionale e centrale periodo della vita liturgica della Chiesa? Credo di sì, ispirandosi ed attingendo alle radici e alle sorgenti del nostro carisma ed esplicitandone le linee portanti ed essenziali. Colgo queste “linee originali” dal Manifesto stesso del nostro Fondatore che è come un arco che apre sul contenuto e lo spirito dell’intera nostra Regola di vita e, nello stesso tempo, la riassume in una sintesi teologico – pas-torale da noi insuperata ed insuperabile.
“Exinanivit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis”. Conosciamo tutti questa citazione (tratta dall’inno paolino di Filippesi 2, 1-11) contenuta nel Manifesto: puntualizza la meta, il traguardo del cammino di Cristo: la Croce, che il cammino della Quaresima a sua volta indica, da Cristo accettata liberamente per amore nostro.
Ma nel Manifesto, S. Michele sottolinea l’inizio di questo cammino: è l’incarnazione, l’offerta che il Verbo fa al Padre della sua intera esistenza terrena. Il nostro Fondatore “lega” e congiunge l’inizio e la fine della missione di Cristo: è un cammino (in termini più propriamente biblici ed evocativi un esodo) che dall’amore dell’offerta iniziale conduce all’amore dell’oblazione finale completa. E durante il cammino vi è l’amore per ogni persona, in particolare per i poveri, gli emarginati, i peccatori. San Michele – poi – deduce da questo amore di Dio per noi rivelatoci da Cristo la necessità di una nostra risposta d’amore per Dio, che “fino a questo punto ci ha amato”.
Ed allora: mi sembra che la “Quaresima betharramita” si possa concepire e definire come un “esodo bi – direzionale”: l’amore di Dio per noi reso visibile in modo palpabile dall’Incarnazione e dalla Croce di Cristo e l’amore dell’uo-mo di fronte e in risposta a “questo spettacolo prodigioso” del Verbo di Dio, venuto in terra ed annientatosi per noi.
La prima direzione: l’offerta del Verbo al Padre e la sua vita sono un mistero d’amore che si esprime e si manifes-ta (ma non si esaurisce) nella testimonianza suprema del suo amore per gli uomini: la Croce. San Michele ripetutamente contempla estasiato questo mistero che dall’Incarna-zione (a sua volta guardata con stupore per la “degna-zione” di Dio) porta alla “follia” della Croce.
Nell’“exinanivit” vede la profondità, direi “l’assurdità” (se vis-ta con gli occhi e il cuore freddi, cioè non illuminati e riscaldati dall’amore) di un atteggiamento che “annienta” (appunto) la natura stessa di una persona, per farle assumere un’altra, che dice piena e totale relazione ad un’altra identità: dice relazione totale alla nostra natura. È l’umana-mente indicibile (ed infatti lo dice la Rivelazione divina) ed incredibile condotta di Dio a favore dell’uomo. E nello stesso tempo è l’esaltante certezza della salvezza che ci ha portato: la Croce lo attesta in modo inequivocabile.
La seconda direzione: lo “spettacolo prodigioso” deve portare i betharramiti (e tutte le persone) ad “imitare” Gesù annientato, spogliato di se stesso, obbediente, a consacrarsi per testimoniare e comunicare agli altri la “gioia” di essere amati e salvati dall’amore del Verbo incarnato e crocifisso. L’amore – ci dice S. Michele – e specialmente questo amore totale richiede una risposta d’amore, che sia allo stesso tempo sulla stessa lunghezza d’onda, anche se ovviamente non potrà essere che di intensità minore. Credere all’amore ed accoglierlo è lasciarsi rinnovare; è innanzitutto ammettere di avere bisogno di questo amore; è comprenderlo nelle sue sconfinate espressioni per viverlo nella sua complessità e totalità. Lo “spettacolo” richiede (come dice “L’Inno paolino” da cui il Fondatore ha tratto le parole ricordate) di “avere gli stessi sentimenti” di Cristo: vale a dire compiere noi stessi il suo cammino di offerta di sé a Dio e ai fratelli, amati e redenti da Cristo, lasciandoci “avvincere” dal suo amore e dal suo esempio. Per comunicare la liberazione e la salvezza da lui portate. Per continuare la sua incarnazione nella Storia. Il betharramita è l’uomo dell’incarnazione, che nella sua vita e nel suo tempo perpetua, testimonia, comunica “l’ Ecco io vengo” del Verbo e lo fa tenendo presente – come ha fatto Cristo – l’uomo, colto nel suo tempo e nelle sue esigenze e domande.
Ecco: credo che la “quaresima betharramita” si possa identificare e riassumere in questo “esodo bidirezionale” che si percorre sempre nell’ottica e nella logica dell’amore del Verbo incarnato. Ed è la Chiesa stessa oggi a sottolineare in modo particolare che la vita religiosa è un cammino ad imitazione di quello di Cristo (Vita Consecrata 40): essa è un continuo esodo personale e comunitario che deve prendere costantemente a modello il Verbo incarnato, nelle sue es-pressioni terrene: offerta di se stesso per la salvezza dell’uomo, obbedienza perfetta al Padre, dimenticanza di sé, amore coinvolgente ogni persona bisognosa.
Oltre la Croce: ma il testo di San Paolo citato da San Michele prosegue: il cammino quaresimale non termina sulla Croce, ma prosegue nell’esaltazione di Cristo Risorto. E l’esaltazione è il frutto e la conseguenza della sua obbedienza al Padre: “per questo…” dice San Paolo. Il Padre ha esal-tato il Verbo per la sua obbedienza, per l’adesione completa alla sua volontà e per l’amore oblativo per gli uomini.
Il cammino, l’esodo totale dell’Incarnato termina con la vita che dona a coloro che accettano la sua salvezza: è la resurrezione da ogni peccato, da tutte le debolezze, è certezza che il Dio della vita non ci lascia nella tristezza della morte, è la manifestazione gioiosa che Cristo si è incarnato per essere rivelazione dell’amore eterno e indefettibile per ogni persona.
In questa prospettiva tipicamente “betharramita” (che la Chiesa ha ricordato in modo particolare durante il Giubileo e che ha posto come cammino e stimolo pastorale per il Terzo Millennio) l’Incarnazione non designa soltanto la Croce, ma attraverso la Croce indica la Resurrezione, la Vita. Ed è la gioia della Vita offertaci da Dio che San Michele dice – sempre nel Manifesto – di “procurare anche agli altri”. La gioia della Pasqua diventa il motore e il dinamismo della missione.
Così l’esodo della Quaresima porta alla Pasqua e da questa alla Storia. La nostra e quella dell’umanità. La missione – per il betharramita – continua con la testimonianza e la comunicazione della Vita ricevuta dal Verbo incarnato.

Ennio Bianchi, SCJ


Esperienza nell'ashram

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Nel mondo, tutti siamo in ricerca. Ricerchiamo il significato e lo scopo della nostra vita, il fine della nos-tra esistenza, per diventare uno con la Parola fatta carne. Siamo tutti pellegrini in questa ricerca spirituale. Noi, novizi betharramiti, ci siamo incamminati in questa ricerca per approfondire l’aspetto indiano della nostra spiritualità.
Come parte del nostro programma di noviziato, noi nove novizi, abbiamo fatto un’esperienza di dieci giorni (dall’11 al 20 febbraio 2009) nell’Anjali Ashram, situato ai piedi delle colline di Chamundiswari, all’entrata di Mysore (Karnataka). L’ashram è un luogo di serenità avvolto da un’atmosfera di gioia interiore. L’espe-rienza olistica dell’anima (Atma Purna Anubhava) è stato il tema di questi dieci giorni di iniziazione alla piena coscienza di sé che porta alla piena coscienza di Dio.
I colloqui spirituali o le linee guida per l’iniziazione (upadesas) da parte del sacerdote responsabile (Acharya-Guru), ci hanno messo in grado di dare una direzione al nostro cammino spirituale attraverso un processo di continua ricerca del centro della nostra vita. Noi “cercatori” (sadhaka) abbiamo accettato la sfida di prendere sul serio il nostro obiettivo (siddhi), abbiamo creduto alla possibilità (sadhya) di raggiungerlo e, di conseguenza, abbiamo praticato esercizi spirituali (sadhana), con serietà, con regolarità, con determinazione e al meglio delle nostre possibilità.
Fin dal primo giorno, il maestro (guru) ha richiamato la necessità del silenzio esteriore e interiore. Ci ha detto: “Non percepite con i vostri sensi, non cercate di capire con la mente, ma osservate soltanto. Lasciate agire, osservate e contemplate lo Spirito attraverso gli occhi della fede.” Siamo stati iniziati ad una spiritualità indiana integrale – l’esercizio universale (sadhana) dello Yoga per l’armonia della vita e guidati con esercizi specifici di meditazione (dhyana) in particolare.
I termini chiave per i primi tre giorni sono stati: consapevolezza e libertà, silenzio e tranquillità, essere calmo ed essere tout court. Siamo stati incoraggiati ad esercitare il controllo di noi stessi, lingua e mente (tutti i sensi), a focalizzarci su un’unica intenzione (ekagrata) ed esperimentare totale passività e immobilità (Samadhi) in una sempre crescente consapevolezza (cit). Alla fine del terzo giorno eravamo in grado di vedere e sperimentare il nostro essere uno con Dio (Brahman), essere in comunione con tutti (comunità di “cercatori”), impegnarci nei confronti della società, essere in armonia con la natura, cosicché l’unica e principale attività della persona umana potesse essere quella di entrare nel sacrario interiore di noi stessi, il santuario dello Spirito, in una condizione di piena consapevolezza e di beatitudine.
Nei due giorni seguenti questa spiritualità ha raccolto la sfida ponendosi queste domande: “Chi è il religioso?” Nella tradizione religiosa e culturale dell’India, nel contesto sociale, economico e politico dell’India di oggi e nella tradizione giudeo-cristiana, qual è la risposta alla domanda: “Sono riconosciuto come religioso dagli altri, dai Cristiani e dalla gente di altre religioni?” Alla fine siamo arrivati a rappresentarci Cristo – per imitarlo – come il perfetto religioso con un obiettivo ben definito, quello di compiere la volontà del Padre.
Durante questa esperienza di dieci giorni di silenzio e solitudine, abbiamo potuto ascoltare la voce dello Spirito. Abbiamo potuto renderci conto che la consapevolezza di sé conduce alla consapevolezza della presenza di Dio (Brahman). E’ la stessa esperienza della donna Samaritana. Diventare più umani per diventare più divini: è stata questa la grande sfida.
Tutta l’atmosfera dell’ashram ci ha aiutato ad approfondire la chiamata a diventare Betharramiti più efficienti, cioè nel realizzare il Brahman che ci abita, nel diventare dei mistici dell’Incarnazione. La rinuncia è condizione necessaria per realizzarsi come persona (Jivan-Mukta), per diventare come Gesù. I metodi spirituali dell’India per raggiungere Dio (Gnana marga, Bhakti marga e Karma marga) ci sono stati molto utili per capire che Dio ci rafforza nella verità, per far emergere l’amore e dall’amore il servizio. Anche il servizio (seva) che abbiamo offerto nell’ashram ci ha spinto ad essere uniti a Dio e alla natura.
La sintesi dell’esperienza  è stata espressa attraverso uno stile di vita semplice e sobrio. Ogni giorno eravamo coinvolti in attività quali la meditazione del mattino (Pratha samdhya), la Celebrazione Eucaristica in stile indiano, alcuni servizi all’ashram, dialoghi spirituali (upadesha), meditazione del mezzogiorno (madhyan samdhya), yoga, meditazione della sera (saayam samdhya) e condivisione con la comunità (satsang). L’interazione con gente di fede diversa e una dieta vegetariana sono stati altrettanti mezzi per approfondire la nostra relazione con noi stessi, con gli altri e con Dio.
Nel momento culminante del nostro periodo nell’ashram siamo giunti ad una sintesi dell’esperienza di Dio, della vita religiosa e della spiritualità indiana, rendendoci conto che l’ashram è anzitutto ed essenzialmente uno stato di vita piuttosto che un luogo, uno stato di continua ricerca e di instancabile movimento della persona e del suo stile di vita.
Nell’insieme, uniti nel Sacro Cuore di Gesù, sotto la cura amorosa della Madonna di Bétharram e con lo spirito pieno di vita di San Michele, noi, nove giovani e bei rami di Bétharram, abbiamo avuto un’esperienza molto intensa nell’ashram, esperienza che serbiamo nel cuore e riviviamo ogni giorno. Gloria e onore al Cuore Misericordioso ora e sempre.

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I novizi della Regione Beata Mariam


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Preghiera per il Capitolo generale Betlemme, 14-31 maggio 2011

Spirito Santo vieni in noi, volgici verso il Signore.

Nato a Betlemme, è lì che ci attende.
Ci chiama ad incarnare, nel mondo e nella Chiesa,
la sua generosità e la sua dolcezza.
Vuole manifestare, attraverso i nostri limiti,
l’immensità della sua tenerezza.

Maestro interiore, rendi vero
quello che siamo e quello che facciamo.
Donaci la saggezza per discernere il bene,
e la forza per realizzarlo.
Rendici docili alla sua grazia,
sempre antica e sempre nuova.

Insegnaci a vivere sotto la doppia legge
che tu incidi nei nostri cuori:
l’amore per unirci a te nel servizio dei fratelli;
l’obbedienza per renderci uno e per compiere la volontà del Padre.

Che la regola sia il nostro ottavo sacramento,
il nostro cammino di fedeltà, di gioia da condividere.
Che anche le nostre debolezze ci rendano più umili,
più generosi, più forti, in Gesù Cristo e attraverso Gesù Cristo,
e che ci sia in noi un solo movimento e una sola preghiera,
sull’esempio della Vergine Maria, di San Michele e della  Beata Miriam:
fare di tutta la nostra vita un « Eccomi ».

Amen.


 5 minuti con... i padri PHAIROTE e ARUN

Phairote Nochatchawan, SCJ

Il 16 maggio 2008, una bella avventura cominciava per P. Phairote Nochatchawan e  P. Arun Kano.
Questi due giovani preti lasciavano  Chiang Mai per costruire una nuova comunità betharramita a Maetawar, nella diocesi di Nakhon Sawan in Tailandia. Con loro andiamo alla scoperta di questo nuovo campo di missione.

Nef: Siete arrivati a Maetawar nel maggio 2008. Potreste presentarci il vostro campo d’azione dal punto di vista sociale e umano?
– Certo, ormai sono quasi due anni che p. Arun e io lavoriamo nella diocesi di Nakon Sawan. Le missioni di Maetawar e Maetan sono costituite da 72 villaggi sparsi sulla montagna e appartenenti a 4 distretti della Provincia di Tak.Tra questi villaggi, 17 posseggono una cappella; in altre parti le famiglie cattoliche vivono isolate. Ci sono due centri scolas-tici misti: una scuola secondaria, il Centro San Francesco d’Assisi (Maetawar) che accoglie 31 scolari, e un Centro di formazione agricola (Pa Noy Pu) con 30 scolari. Anche noi abbiamo tre scuole di villaggio: la Fresh Flower School, che si trova in un villaggio lontano, una scuola primaria a Maewey e una scuola preparatoria alle classi superiori a Mae Sa Pau. A lavorare in questa missione siamo tre sacerdoti, p. Arun, io e p. Alain del m.e.p., con la collaborazione di due suore, quindici catechisti, cinque insegnanti e due volontari.
Chi sono i cristiani, e quanti sono? – I cristiani di cui ci occupiamo sono tutti kariani (Skaw Karen e Po Karen): 1843 battezzati e 693 catecumeni, per un totale di 2536 persone.

Quale differenza c’è con ciò che avete conosciuto prima?
– Le differenze tra la diocesi di Chiang Mai e il dis-tretto di Maetawar-Maetan della diocesi di Nakon Sawan riguardano in modo principale tre aspetti:
Religioso: in questa regione le persone si interessano al cattolicesimo. Le conversioni sono in numero crescente, soprattutto tra gli animisti. Però la fede e la pratica religiosa non sono molto radicate tra i fedeli come dovrebbe essere;
Linguistico: i Kariani di questa regione parlano una lingua leggermente diversa da quella di Chiang Mai. Per la tras-crizione essi usano dei caratteri presi dalla lingua birmana, mentre noi ci siamo abituati all’alfabeto romano;
Liturgico: prendendo come esempio le cerimonie nuziali, la ragazza entra in chiesa con il suo lungo abito bianco. Dopo il matrimonio, la ragazza indossa i suoi abiti da sposata.

Quali sono le vostre attività principali?
– Noi operiamo principalmente nella pastorale, nell’evangelizzazione dei villaggi sparsi sulla montagna e nell’accompagnamento pastorale dei giovani nelle scuole. (P. Phaïrote)
“Alzati e cammina”. Questo è la nostra parola d’ordine. Ecco perché, oltre l’attività pastorale, cerchiamo di camminare con la gente per mostrare loro che possono andare avanti da soli. L’anno scorso, per esempio, io ho piantato del riso in un pezzo di terra che P. Alain, del m.e.p., aveva acquistato alcuni anni fa e che da allora aveva lasciato in maggese; infatti, essendo solo, non poteva incaricarsi di questo lavoro supplementare. Il frutto di tale iniziativa: i giovani dei due Centri hanno messo in pratica ciò che studiavano a scuola acquisendo così esperienza; i genitori degli studenti sono stati invitati anch’essi a partecipare, offrendo alcune giornate di lavoro, come profitto dell’educa-zione dei loro figli; gli studenti dei Centri scolastici mangiano il riso che loro stessi hanno coltivato. E questo, da molti punti di vista, è molto positivo. (P. Arun).

L’educazione dei giovani è quindi una parte importante del vostro ministero…
- Senza dubbio, infatti il livello scolastico offerto nelle scuole di questi villaggi, dal ministero dell’educazione, è molto basso. È indispensabile che ci siano dei Centri di formazione di buona qualità per questi giovani: in seguito, questi potranno, a loro volta, elevare il livello dell’educazione nei propri villaggi.

Dal vostro arrivo, sono cambiate le condizioni della missione?
– I vecchi missionari ci avevano dato dei consigli: “Quando arrivate in un nuovo luogo, all’inizio non parlate, aprite bene gli occhi e osservate attentamente per ricordarvi chiaramente di tutto; aprite bene le orecchie e ascoltate per raccogliere le informazioni e le idee di persone che hanno esperienza; aprite bene il vostro cuore e cercate di capire qual è il lavoro che siete chiamati a svolgere”. Noi diamo lode a Dio per averci dato un esempio da seguire, e di conoscere i missionari e tutti quelli che hanno formato gli operai per la messe. Noi continuiamo la missione con le nostre capacità e la nostra forza. Nell’arco di questi anni, il numero dei cristiani è aumentato.

Quali sono le sfide più grandi che avete incontrato dal punto di vista spirituale?
– Le strade e le piste di montagna sono difficili da percorrere. Le persone che avviciniamo coltivano delle credenze popolate da spiriti. Ma le sfide reali alle quali dobbiamo fare fronte sono di tutt’altra natura. Nella nostra attività pastorale e nel campo dell’evan-gelizzazione, le vere sfide hanno un peso che grava sulle nostre spalle e nei nostri cuori: “Come guidare con precauzione questa grande barca lanciata nel fiume in mezzo alle rapide e sotto le raffiche di un vento di tempesta che non si placa mai, perché raggiunga un’oasi di pace?”. Questa è la sfida più grande e la croce più pesante da portare.

In qualità di religiosi-sacerdoti, qual è la soddisfazione più grande in ciò che vivete oggi?
– È l’Eucaristia, vissuta ogni giorno con devozione e determinazione, che mi dà la forza di vivere la mia vita religiosa. “Se la preghiera è costante, anche la forza è regolare; se la preghiera si indebolisce, anche la forza si indebolisce; se la preghiera è assente, la forza viene a mancare”.

Che avvenire desiderate per Bétharram nella diocesi in cui lavorate e, complessivamente, in Thailandia?
– Il futuro di Bétharram in Thailandia? Questo io credo: se vogliamo accogliere le richieste di altre diocesi, dovremo “prendere il largo” (Lc 5,4) guidati dallo Spirito della Congregazione. Infatti lo Spirito Santo ha sempre operato presso i superiori che sono stati nominati fino ad oggi; certo, bisognerà che la Congregazione trovi degli aiuti finanziari per sostenerci nelle nuove attività (P. Arun).
Confidando nella divina Provvidenza e sottoponendoci ad essa incondizionatamente, la Congregazione continuerà ad essere colma di grazie in questa nuova regione (P. Phaïrote).

Arun Kano, SCJ


IN MEMORIAM FRANCIA

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Hasparren, 6 gennaio 1922 - Bétharram, 22 febbraio 2010

Nato a Hasparren (Francia) il 6 gennaio 1922, alunno della scuola apostolica di Bétharram, p. Sauveur entra in noviziato a Balarin ed emette i primi voti il 15 agosto 1940. I suoi studi di filosofia e teologia sono interrotti da due anni di servizio obbligatorio in Germania, durante la guerra. È ordinato prete a Gerusalemme il 15 agosto 1947. Dopo un anno passato ai Miracoli a Roma, parte missionario per la Cina con p. Séguinotte, ed arriva a Tali il 30 marzo 1949. L’anno successivo è destinato per Hia-kouan, dove si trova la comunità delle Figlie della Croce. Espulso dallo Yunnan, arriva a Chieng Mai nel mese di maggio 1952; per più di vent’anni la sua attività di missionario si svolgerà in questo nuovo Paese, in particolare a Chiang Mai. Rientrato in Francia a metà degli anni 70, è destinato dapprima alla residenza di Pau, e poi, dal 1979, a Bétharram, dove passerà il resto dei suoi giorni.

Vi farò una confessione. È la prima volta che mi si chiede di fare l’omelia per un religioso di Bétharram. Nell’accettare di commentare questa parola di Dio, mi sono venuti in mente due fatti che mi legano a P. Sauveur. È nato ad Hasparren. Io sono nato ad Hasparren. In particolare, tutte le volte che ci incontravamo, egli parlava di un sacerdote, un vecchio vicario di Has-parren, che lui apprezzava, un certo Arnaud Delgue, mio prozio e padrino di mio padre. Quando iniziai la mia formazione nel seminario di Toulouse, mi regalò un breviario che era appartenuto a questo mio prozio e che conservo gelosamente.
Questo pomeriggio, Padre Londaïtzbéhère ci riunisce in ques-ta cappella della Vergine di Bétharram. Ha appena concluso il suo passaggio. E la sua morte tocca ciascuno di noi perché lo amiamo per chi è. Come non ricordare la sua statura, la sua voce, la sua vita missionaria in Cina e in Thailandia, vita missionaria segnata da un’espulsione dalla Cina che lo ha segnato per tutta la vita. E tutti i chilometri percorsi nel Sud-Ovest con il suo scooter blu, e la sua veste svolazzante. Sauveur amava Gesù Cristo al quale ha dato tutta la sua vita.
I testi della Parola di Dio che abbiamo appena ascoltato ci interrogano. Quale fecondità di una vita religiosa, di una vita sacerdotale, in quest’anno sacerdotale e in questo luogo scelto dalla diocesi quale luogo di pellegrinaggio? Si possono contare i frutti di una vita offerta a Cristo? A cosa serve un religioso, un sacerdote? È in termini di utilità che noi valutiamo la vita di un religioso-sacerdote? La Parola di Dio serve per guidarci al cuore stesso del nostro essere profondo di religioso: il mistero di un dono totale.
“Se il chicco di grano,caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Il chicco deve morire per dare dei frutti. Ecco la fecondità! Morire a se stessi per donarsi a Cristo. L’essenziale è lasciarsi trasformare dalla Parola di Cristo, questa Parola di Dio che non si può incatenare, che non ferma la sua corsa, che continua ad essere proclamata da tutti i missionari, da tutti i discepoli di Cristo a tempo opportuno e inopportuno, attraverso le prove che ogni discepolo di Cristo può incontrare, attraverso i limiti umani dei messaggeri del Vangelo. Sauveur ha fatto esperienza, nella sua carne e nel suo cuore, della sofferenza dei messaggeri della Parola di Dio. I messaggeri che sono scacciati, costretti al silenzio, mandati via… Sauveur si è sempre fidato di Gesù Cristo, ha seguito il Cristo fino alla fine. (…) La fecondità di una vita religiosa passa attraverso questa conformazione a Cristo. Il Cristo è forse stato riconosciuto come profeta a casa sua? Il Cristo è forse stato compreso dai suoi concittadini? Il Cristo è forse stato amato dai suoi? Il Cristo ha offerto la sua vita per la salvezza degli uomini. Il Cristo ha sempre detto: “Eccomi, Padre!”. (…)
La fecondità di una vita religiosa si dispiega nella misura in cui il cuore a cuore con Cristo è vissuto ogni giorno nella preghiera, nel silenzio e nella vita sacramentale. Come si può annunciare la Parola di Dio senza ascoltarla, senza meditarla? Come si può trasmettere la parola di Dio senza lasciarsi affascinare dalla sua forza, forza di vita e di amore? Sauveur ci ha lasciato la testimonianza di una grande fedeltà alla preghiera per essere con Cristo, per servire Cristo. (…)
Come non avere speranza? Noi siamo chiamati a vivere con Cristo: “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui”. Ecco la vetta della fecondità! Sì, il chicco di grano caduto in terra porta frutto. In questo modo, come non essere riconoscenti per tutta la vita a P. Sauveur? Ciò che ha seminato porta frutto. Ciò che ha seminato in Cina, in Thailandia o qui a Bétharram, porta e porterà frutti. In Thailandia, dove il passaggio di consegne è stato fatto…

Omelia di P. Jean-Dominique Delgue, SCJ 
Betharram, 24 febbraio 2010


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3. PRIME DIFFICOLTÀ

a cura di 
Joseph Séguinotte,SCJ

L’Écho de Bétharram
settembre-ottobre 1944

Yang-Pi fu completamente saccheggiata, e i due Padri che lavoravano in questa missione furono costretti a fuggire sulle montagne. Tre mesi più tardi, P. Palou poté rientrare. Lo attendeva uno spettacolo desolante: “In cappella, hanno portato via tutto; appesi al muro, sopra l’altare, rimangono solo il quadro del Sacro Cuore, quello della Vergine e quello di san Giuseppe. Il crocifisso è sparito, l’altare completamente spogliato, la porta del tabernacolo sfondata; sul pavimento, alcuni brandelli di stoffa, residui di paramenti che sono stati tagliati e fatti a pezzi. Della scuola non rimane nulla. La residenza saccheggiata.” Due anni più tardi, il capo di questi banditi, divenuto colonnello dell’esercito regolare, prelevò P. Pirmez e lo tenne prigioniero per una decina di giorni.
Nel 1927, una violenta ondata di xenofobia si abbatté sull’intera Cina; due Gesuiti furono assassinati a Nankin. Davanti a queste minacce, i consoli stranieri consigliarono ai loro compatrioti di mettersi in salvo. I pastori protestanti obbedirono immediatamente, ma i missionari cattolici preferirono affrontare il pericolo; questo atteggiamento, d’altronde, alimentò ulteriormente la simpatia dei cinesi verso di loro.
Da questo accenno ai protestanti possiamo dedurre che i nostri Padri non erano i soli a lavorare in questo campo di apostolato. Nel 1935, un missionario scriveva: “Abbiamo dei rivali molto numerosi, molto più numerosi di noi e molto meglio attrezzati di noi: sono i protestanti.” E aggiungeva: “Siamo meno di 20 per 33 sotto-prefetture, e loro sono in diversi per ogni sotto-prefettura” e ne citava una che contava non meno di quattro pastori sposati e cinque signorine missionarie.
All’inizio del 1931, P. Etchart venne dalla Birmania per accordarsi con il Vicario Apostolico di Mandalya circa l’evangelizzazione di una popolazione sul confine birmano-cinese: i Shans o Tais. A partire dall’anno seguente, i Padri Trezzi, Lacoste e Darnaudéry partirono per imparare la lingua di questa tribù. Ma nel frattempo un lutto crudele aveva devastato la giovane Missione: al suo ritorno in Birmania, nell’aprile 1931, P. Etchart era stato portato via, in 36 ore, da una malattia fulminante. Questo apostolo che, prima di lasciare la Francia aveva detto: “Siamo la prima ondata d’assalto”, cadde per primo sulla breccia, a 48 anni, e le sue ultime parole: “E’ proprio la fine?...” rendono attuale il “non recuso laborem [non rifiuto le fatiche]” dell’apostolo delle Gallie, parole accompagnate anche da una leggera sfumatura di accettazione generosa, di sottomissione alla volontà di Dio.
In novembre, Mons Salotti annunciava la nomina del M. Rev Padre Magenties come Superiore della missione: l’eletto aveva dalla sua solo tre anni di soggiorno in Cina. Sotto suo impulso, si continuò a progredire: si fondò una scuola per catechisti, un seminario per futuri sacerdoti. Padre Darnaudéry intraprese l’evangelizzazione di una nuova tribù: i Katchins. Padre Oxibar diede inizio, nel sud, a un nuovo distretto che, tre anni dopo, doveva dare ottimi frutti.

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